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Cosa succede ad una persona condannata dopo che ha scontato la sua pena? Nella quasi totalità dei casi, ovviamente torna in libertà, ma non è sempre così. Questa regola, apparentemente scontata e basilare, non vale per tutti.

Circa 250 persone, dopo aver espiato la propria pena, si trovano recluse, per un tempo indeterminato, in una struttura del tutto analoga ad un carcere e che, quasi sempre, del penitenziario, rappresenta una sezione: la casa di lavoro o colonia agricola.

In Italia ce ne sono 9. Da Alba a Barcellona Pozzo di Gotto, passando per Tolmezzo, Venezia, Castelfranco Emilia, Isili, Aversa, Vasto e Trani.

Si tratta di una realtà poco conosciuta e trascurata. Come sosteneva Valerio Onida, la casa di lavoro è «una “provincia” un po’ dimenticata del nostro diritto penale». Per questo, la società della Ragione le ha dedicato un lavoro di ricerca quantitativa e qualitativa sostenuto dall’Otto per mille della Chiesa Valdese, che si è da poco concluso e che ha permesso di intervistare internati e operatori.

A questa misura di sicurezza, introdotta dal Codice Rocco del 1931, sono sottoposte persone che sono etichettate come delinquenti abituali, professionali o per tendenza, e che sono in realtà, per la gran parte, persone che vivono plurime condizioni di vulnerabilità e possono contare su poche reti di supporto. Socialmente pericolosi li definisce il codice e li qualifica il magistrato, continuando ad utilizzare un concetto che un grande psicopatologo forense come Fornari già trent’anni fa riteneva «equivoco, riduttivo e non scientifico».

La misura di sicurezza, come e più del carcere, prendendo in prestito l’espressione da Margara, rappresenta una forma di «detenzione sociale». Ingiusta e illiberale – come sostiene Monsignor Bruno Forte -: «dovrebbe far vergognare una democrazia fondata sui principi del rispetto della dignità di ogni persona e della solidarietà verso i più deboli, sanciti nella nostra Costituzione repubblicana».

La casa di lavoro, inoltre, è fonte di grande sofferenza proprio perché “non meritata”. È difficile per le persone che vi sono sottoposte comprendere ed accettare le ragioni di una ulteriore sanzione, lo si coglie dalle parole di uno degli intervistati, che ripete un ciclico “perché” che resta senza risposta:

«Perché siamo qua? Non perché siamo criminali. Ho conosciuto chi aveva commesso più reati di me, più gravi di me e non ha fatto la casa lavoro. Allora perché? Perché siamo psichiatrici? Perché siamo disagiati?»

Inoltre, la sofferenza è acuita dall’indeterminatezza, dovuta alla possibilità che il magistrato proroghi la misura. Così, in casa di lavoro si sta in un limbo che può apparire senza via di uscita, tanto che tra gli intervistati alcuni dichiarano di avere iniziato ad assumere stabilizzatori dell’umore che non avevano mai assunto prima.

E allora perché tenere in piedi una misura platealmente ingiusta, illiberale, che raddoppia la pena, e che opera un discrimine tra le persone non sulla base dei fatti commessi ma delle loro vulnerabilità?

Difficile immaginare che la casa di lavoro possa aiutare, dopo lunghi anni di detenzione, a reinserire.

Una struttura detentiva, lontana, anche molto lontana, dalle reti di riferimento della persona come può agevolarne il reinserimento? E ammesso che sia proprio il lavoro a favorire la rieducazione, una casa di lavoro in cui il lavoro è poco, malpagato, ed è per la gran parte un lavoro «domestico» per garantire il funzionamento dell’istituto, può svolgere questa funzione?

Più realisticamente, con le parole di uno degli intervistati, la casa di lavoro appare essere un «parcheggio d’anime». Un parcheggio che sarebbe giusto – come nella proposta di legge presentata dall’On. Magi (AC n. 158) – finalmente superare.

La proposta di legge e la ricerca su societadellaragione.it/misuredisicurezza