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E’ stato da poco presentato il risultato di una iniziativa internazionale “dal basso”, di Antigone e dell’associazione israeliana Physicians for Human Rights, in tema di isolamento carcerario. Si tratta di linee guida sulle alternative all’isolamento penitenziario, accompagnate da un documento di contesto, che permette di collocare l’isolamento carcerario all’interno della concezione della pena carceraria. Da qui, si può delineare una prospettiva bioetica, seguendo la traccia di pensiero del Comitato Nazionale per la Bioetica – CNB che più volte è intervenuto sul carcere (in particolare sulla salute in carcere).

L’isolamento carcerario, ossia la separazione del detenuto/a dal resto dei reclusi, implica che la persona stia da sola in cella almeno 22 ore al giorno. Può essere disposto per molteplici ragioni: disciplinari (con una durata massima di 15 giorni), giudiziarie (per esigenze cautelari), o anche sanitarie: ad esempio soggetti con problematiche di salute mentale, a volte considerati a rischio suicidario. Un paradosso, poiché i dati dicono che l’isolamento è condizione che precipita la decisione di togliersi la vita.

Dalla ricerca si ricavano evidenze circa la nocività dell’isolamento carcerario sulla salute, in particolare sulla salute mentale. Questo regime inibisce le relazioni “fuori”, con familiari e con altri soggetti significativi, riduce la socialità “dentro”, limita l’accesso alle attività culturali: elementi importanti per la tenuta psicologica della persona reclusa e per dare concretezza alla  rieducazione/risocializzazione. Dunque, l’isolamento carcerario si pone in contrasto col diritto alla salute, mettendo in tensione il principio del limite che deve rispettare la pena costituzionalmente fondata: la sospensione del diritto alla libertà di movimento non può cancellare gli altri diritti fondamentali, in primis il diritto alla salute. In più, tale regime detentivo comporta una sofferenza in più rispetto alla limitazione della libertà della detenzione ordinaria. E’ legittimo tutto ciò? Oppure siamo ai limiti del trattamento inumano e degradante, in quanto la sofferenza inferta con l’isolamento eccede i limiti della pena costituzionalmente (ed eticamente) intesa? Un indizio inquietante sta nel fatto che gli episodi di violenza e abuso sono più frequenti proprio nei reparti di isolamento: in molti dei quali le celle sono ambienti inumani.

L’obiettivo non può che essere il superamento dell’isolamento, attraverso un percorso di riduzione fino all’eliminazione di questa pratica, in quanto non eticamente fondata. Può essere utile rileggere in parallelo la questione della contenzione. A suo tempo, il CNB indicò la via della riduzione fino all’abolizione della contenzione. A chi obietta “ma non si può fare altrimenti”, va ricordato che la ricerca delle alternative parte dal rifiuto netto di agire contro la dignità della persona. Se oggi esiste un numero significativo di servizi psichiatrici no-restraint, è perché a suo tempo Franco Basaglia si rifiutò di legittimare la consuetudine di legare i pazienti al letto (il famoso “e mi non firmo”). Le buone pratiche nascono da una rivolta morale, che spinge a inventare, o semplicemente a riconoscere le alternative. Lo stesso si può ipotizzare per l’isolamento detentivo: le alternative già ci sono nelle linee guida internazionali, per riconoscerle occorre un balzo in avanti delle coscienze. Su questa via, il primo passo è far sì che l’isolamento sia considerato intervento straordinario, invece di ordinario strumento di gestione penitenziaria, imponendo procedure trasparenti di documentazione degli episodi. E il sistema sanitario, col suo personale, deve fare la sua parte, non solo astenendosi dal certificare che la persona possa sopportare il regime speciale; ma al contrario facendosi parte attiva nel denunciare l’abuso del procurare danno alla salute delle persone detenute.