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La morte di Stefano Cucchi sgomenta ancora più dopo la confessione di uno dei cinque carabinieri imputati per il pestaggio avvenuto la notte del fermo, letta dal PM l’11 ottobre in una udienza del processo conseguente all’inchiesta-bis disposta dalla Procura della Repubblica di Roma. Dalle parole del militare, traspare infatti il carico di inaudita violenza esercitata verso una persona fragile dal punto di vista psicologico e esile dal punto di vista fisico: Stefano Cucchi aveva la passione per la boxe ma pesava solo 43 chili (al momento del decesso si era ridotto a 37 chili). Colpisce il cumulo di omissioni, di reticenze e di menzogne  che si sono sviluppate in questi anni e la cortina di omertà che ha accompagnato un calvario di sette giorni, dalla notte del fermo al giorno della autopsia. Solo ora l’omertà si è parzialmente rotta.

Questo squarcio di verità dopo dieci anni, con il racconto raccapricciante dei calci e pugni inferti da due carabinieri, svela una rete di coperture dello Stato, purtroppo non inedita.

Rivediamo gli spezzoni di questo film dell’orrore: Stefano Cucchi viene fermato da una pattuglia dei carabinieri e trovato in possesso di 21 grammi di hashish; i carabinieri procedono a una perquisizione nell’abitazione della famiglia Cucchi, quindi lo riportano in caserma dove si procede al pestaggio e infine lo trasportano in custodia cautelare a Regina Coeli. La mattina all’udienza di convalida si presenta con un avvocato d’ufficio e nessuno si accorge delle condizioni fisiche compromesse (difficoltà a camminare, a parlare e gli ematomi agli occhi). Il giudice distrattamente conferma l’arresto e rinvia il processo a nuova seduta che si sarebbe tenuta un mese dopo. Viene ricondotto in carcere e a causa del peggioramento dello stato di salute viene visitato all’Ospedale Fatebenefratelli dove il ricovero non si concretizza per il mancato consenso del paziente. Dopo il ritorno in carcere e una breve permanenza lì, viene disposto il ricovero nel repartino bunker dell’Ospedale Sandro Pertini.

E’ una vicenda che condensa in sé, in modo esasperato, tutti i malanni e le contraddizioni del funzionamento della giustizia, del carcere non trasparente, della mancata tutela della salute in carcere (da un anno la sanità era passata nella competenza del servizio sanitario pubblico), di una legislazione repressiva sulla droga.

Nel dibattito anche di questi giorni, poco si sottolinea quanto abbia contribuito a quell’esplosione di cieca violenza lo stigma del consumatore di droga, del tossicodipendente, del piccolo spacciatore di sostanze stupefacenti illegali, soggetti pericolosi per la società, e perciò senza diritti, sui quali ogni abuso di potere è in fondo giustificato.

Erano gli anni del trionfo della legge Fini-Giovanardi, della cancellazione della differenza tra droghe pesanti e leggere, delle pene altissime per detenzione di sostanze, del rilancio  della war on drugs. In una guerra vi sono vittime, effetti collaterali e impunità per chi pretende di avere una missione salvifica. Il corpo può essere schiacciato se l’anima viene salvata. Così Carlo Giovanardi poteva definire impunemente Stefano Cucchi uno zombie.

Ho riletto un mio commento a questa tragedia, pubblicato dal Manifesto il 2 novembre del 2009 in cui individuavo come centrale il tabù della droga.

Stefano Cucchi in quegli anni non fu un caso isolato. Molte persone morirono in carcere per morte “naturale” o per suicidio. Marco Ciuffreda, Giuseppe Ales, Alberto Mercuriali, Roberto Pregnolato,  Stefano Frapporti, Aldo Bianzino sono state le vittime della violenza e dell’intolleranza di una legge creata dal furore ideologico che produce ancora guasti riempiendo le carceri.

L’indignazione dovrebbe pretendere la riforma della legge criminogena sulle droghe.