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Nei lunghi anni della Fini Giovanardi e del “suo” Dipartimento antidroga, c’è stato, come si sa,  un  mondo  di operatori, scienziati, consumatori e cittadini che non ha mai smesso di opporsi e lottare per una alternativa. Meno forse si sa che dentro questo mondo c’è stato chi, diverso per ruolo e competenze, in “direzione ostinata e contraria” ha continuato a lavorare  sul piano della ricerca e  dell’operatività, per un diverso modo di leggere i fenomeni del consumo di droghe e di intervenire. Un lavoro  di controtendenza sul piano nazionale ma fortemente ancorato  ai contesti  internazionali ed  europei,  un lavoro caparbio   caratterizzato da risorse materiali fragili compensate da impegno e competenza. Appartiene a questo  mondo  di  minoranza – se paragonato al pensiero dominante della “malattia del cervello” – quello che, per iniziativa di Forum Droghe e CNCA,  si è incontrato a Firenze tra il 4 e il 6 settembre per proporre, discutere e sviluppare con oltre cento operatori del pubblico e del privato sociale un nuovo modello operativo in tema di consumi di droghe,  un “Modello operativo ecologico verso il controllo del consumo”.  Di cosa si tratta e perché sta riscuotendo tanto interesse? Si tratta innanzitutto di uno sviluppo dell’approccio di riduzione del danno, e già questo lo mette all’ordine del giorno, dopo anni di ostracismo del “quarto pilastro” delle politiche sulle droghe. Ma soprattutto si tratta di una sfida scientifica e operativa, che innova su tre piani principali. Il primo, lo sguardo: il percorso che ha portato a questa proposta (un processo di ricerca e  sperimentazione durato  oltre 3 anni, incluso un progetto europeo) ha riattraversato decenni di ricerca internazionale sui consumi e ne ha sviluppata a livello locale, evidenziando come i consumatori di qualsiasi sostanza – che, è bene ricordarlo, per la stragrande maggioranza hanno un consumo non problematico – mettono in atto strategie efficaci di autocontrollo del proprio consumo, e che anche quando arrivano a momenti di “fuori controllo” sanno poi ritornare a consumi più moderati. E che, inoltre, apprendono dalla propria esperienza in modo evolutivo. Insomma, semplificando, la “malattia cronica  recidivante” non è il  destino, come sostiene  il dominante sguardo medico. Secondo, gli interventi. La protezione dall’abuso e da un uso dannoso punta a sostenere le pratiche “naturali” di autoregolazione, verso un consumo il cui grado di “controllo” non è dettato da standard ma da ciò che il consumatore pensa sia bene per sé. Questa prospettiva suggerisce che l’astinenza non sia il solo buon obiettivo, ma che lo sia riuscire a sostenere uno stile di vita desiderabile. Terzo, il contesto: quel “ecologico” significa  che il consumatore va pensato nel suo ambiente e non solo di fronte a una molecola, e  che questo ambiente a sua volta è (può essere) fattore di protezione e sostegno all’autoregolazione. Il confronto serrato tra operatori, ricercatori, consumatori ha aperto una prospettiva, che ruota non attorno al “deficit” di chi consuma ma alle sue risorse e apprendimenti (come del resto avviene in tutta la promozione della salute), attorno a obiettivi non pre-stabiliti da servizi e politiche  ma   legittimamente restituiti alla sovranità del soggetto (come del resto dettano le migliori metodologie della relazione di aiuto). Sostenere l’autocontrollo, insomma, è una prospettiva e una pratica che include, dopo un lungo ostracismo morale coperto da ragioni pseudoscientifiche, il consumatore tra i cittadini, quelli che hanno sovranità sulla propria salute e sul proprio stile di vita.
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