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Lo scorso marzo, la Commission on Narcotic Drugs dell’ONU (CND) a Vienna ha svolto i lavori preparatori in vista del 2024, quando si terrà la valutazione di medio termine della strategia globale sulle droghe decisa nel 2019. Ma è a Ginevra, non a Vienna, che si registrano le novità politicamente più rilevanti. Lì, infatti, un altro pezzo del sistema ONU, lo Human Rights Council (HRC), il 4 aprile ha adottato una risoluzione su diritti umani e politiche delle droghe che imprime una accelerazione al ruolo che il tema dei diritti può positivamente giocare. Quello dell’ingresso delle agenzie su diritti, salute, sviluppo sostenibile e molte altre nelle politiche delle droghe è un processo iniziato nel 2016, all’Assemblea generale ONU, proseguito con la Common Position del 2018, e con le risoluzioni 28/28 del 2015 e 37/42 del 2018 dello stesso HRC, che ha introdotto il rispetto dei diritti e delle relative Convenzioni come vincolo delle politiche delle droghe. Questa nuova risoluzione non innova tanto sui contenuti – che ribadiscono comunque priorità circa i diritti alla salute e alla non discriminazione, alla propria cultura per i popoli nativi, nonché la rinuncia alla criminalizzazione per le condotte minori – quanto nei processi di valutazione delle strategie globali. Infatti, in vista del 2024, il Comitato preparerà un rapporto, redatto con agenzie ONU, stati e ONG, e terrà un panel dedicato, durante la CND, per valutare le politiche globali alla luce dei diritti. Dove ciò che conta è l’affermazione che sono le politiche a porre problemi inerenti ai diritti umani, e non il fenomeno droghe di per sé, dunque il dibattito diventa immediatamente politico, se comprende come indicatore cruciale degli esiti il rispetto e la tutela dei diritti (che vanno “protetti e promossi così come le libertà fondamentali e la dignità di tutti gli individui nel contesto dei programmi, delle strategie e delle politiche delle droghe”).  La risoluzione è un passo avanti, non una vittoria secca: i compromessi, soprattutto con il blocco russo-mediorientale, lasciano ancora aperti molti problemi e il limite di non portare questo nuovo processo a regime, ma limitarlo, per ora, alla CND del 2024.

Lo HRC ribadisce che gli stati devono “riformare, alla luce celle linee guida sui diritti umani, quelle politiche delle droghe che producano esiti di discriminazione”, soprattutto nella dimensione del controllo penale, e in quello del diritto alla salute, e qui, esplicitamente si include la Riduzione del danno (RdD) come ambito cruciale. Enfasi anche sull’attenzione al genere e alla lotta al razzismo, nonché sul diritto dei popoli indigeni alla propria cultura e medicina tradizionale. Forte anche il richiamo alla centralità della società civile e delle comunità, che vanno coinvolte “nello sviluppo, nella implementazione, nel monitoraggio e nella valutazione delle politiche, anche con azioni di advocacy e sensibilizzazione e lo scambio di saperi e competenze”.

Un bel problema per l’Italia, che ha siglato la Risoluzione: come la metterà Mantovano con la criminalizzazione e la discriminazione di quelle che secondo la destra non si possono chiamare ‘persone che usano droghe’ perché se no si accetta l’uso? E come la metterà con la RdD che, di nuovo! non si può nemmeno nominare, tant’è vero che nella Relazione al Parlamento 2023 i dati sui servizi (quelli che resistono) li leggeremo nel capitolo Prevenzione? E come la metterà con l’assenza di un vero, trasparente e pluralista sistema di partecipazione della società civile, che non includa solo i soliti amici? Senza contare la risposta che il governo dovrà dare, proprio su criminalizzazione e RdD, al Comitato ONU per i diritti sociali culturali ed economici di Ginevra (vedi questa rubrica, 19 ottobre 2022).

La risoluzione ONU e la nota di IDPC tradotte su fuoriluogo.it

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