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“Senza casa, senza lavoro”: è l’eloquente titolo del seminario, organizzato dal Garante dei detenuti della Regione Piemonte Bruno Mellano, che ha rimesso con forza al centro del dibattito il tema delle misure di sicurezza. Misure comminate in aggiunta alla pena detentiva, quando la persona è considerata particolarmente pericolosa e dichiarata “delinquente abituale, professionale o per tendenza”. Sono 335 le misure detentive in atto al 31 gennaio di quest’anno in sei strutture. Un numero esiguo, che rischia per questo di restare invisibile; una condizione di sostanziale ingiustizia che non può essere ignorata.

La casa di lavoro e la colonia agricola erano state pensate, nel clima politico e culturale degli anni Trenta del secolo scorso, come mezzi per raddrizzare, attraverso il lavoro forzato, quelle persone per le quali la pena non era ritenuta sufficiente. Passato quasi un secolo, le misure di sicurezza sono ancora là, “ruderi mal collocati e che continuano a far danno”, come le ha definite Franco Maisto. Le misure di sicurezza contrastano con i principi garantisti affermati dalla Costituzione perché non sono diverse, nella sostanza, dalla pena detentiva, e in molti casi realizzano una forma surrettizia di ergastolo. Se ne potrebbe, per questo motivo, mettere in dubbio la legittimità costituzionale. La Consulta dovrà confrontarsi a breve con questo istituto e forse sciogliere qualche nodo, visto che la Corte di Cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis O.P., in quanto consente di applicare il regime di rigide restrizioni anche dopo la fine della pena, a quelle persone assoggettate a misura di sicurezza detentiva.

La politica ha difficoltà nel fare riforme su temi cruciali per i diritti dei detenuti, mentre le spinte al cambiamento arrivano da decisioni giurisprudenziali, così anche la proposta di riforma delle misure di sicurezza, elaborata della Commissione presieduta dal Prof. Marco Pelissero, rimase bloccata.

Le Case Lavoro sono collocate in sezioni degli istituti penitenziari, in cui gli internati conducono la stessa vita dei detenuti, e il lavoro, che dovrebbe caratterizzarle, manca. Quale lavoro dovrebbe essere svolto dai reclusi? Non certo quello che aveva in mente il legislatore del 1930, un’idea terapeutica di lavoro attraverso la coazione, da cui è bene allontanarsi dice Stefano Anastasia, Garante della Regione Lazio e dalla Regione Umbria. Servirebbe piuttosto un lavoro dignitoso, retribuito in modo giusto, e volontario, come previsto dal nuovo art. 20. O.P., che ha abolito l’obbligatorietà del lavoro detentivo. Un lavoro che sia la base di un reinserimento sociale reale per le persone internate, che per la maggior parte si trovano recluse in quanto si ritiene che, una volta uscite, torneranno a delinquere, perché sono senza fissa dimora, non hanno supporti affettivi, hanno problemi di dipendenze. La testimonianza della Garante di Biella, Sonia Caronni, conferma che la marginalità sociale caratterizza i reclusi in Casa Lavoro, e rende necessario pensare a percorsi di reinserimento sociale di persone con particolari difficoltà di recupero.

Sembra improcrastinabile l’iniziativa di riforma legislativa, proposta da Franco Corleone. A partire dal principio di reinserimento sociale affermato dalla Costituzione e dall’Ordinamento penitenziario, è necessario superare le Case di Lavoro e pensare invece a luoghi non detentivi, case che siano veramente tali e contesti di lavoro protetti, prevedendo misure alternative di reinserimento sociale. I Garanti (ne hanno discusso il Garante nazionale Mauro Palma e Alessandro Prandi, Garante di Alba) possono fare molto per modificare lo stato di cose, e sarebbe bello festeggiare i 90 anni dall’entrata in vigore del Codice Rocco, nel prossimo luglio, con l’abolizione delle misure di sicurezza, segno di una archeologia criminale.