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Susciterebbe scandalo, non diciamo indignazione, se cominciassero a morire tanti detenuti quanti furono i decessi di ospiti delle Rsa nella prima ondata della pandemia? Probabilmente no: come sono stati archiviati come tossici i 13 morti dopo le proteste di marzo e come sono stati dimenticati gli anziani (erano vecchi! comunque), così cinicamente qualcuno direbbe, o penserebbe, che ci si è liberati di delinquenti.

E allora dove sta l’emergenza carcere? Nel sovraffollamento? O piuttosto nella violazione dei principi della Costituzione, nella disapplicazione delle leggi e dei regolamenti che prescrivono diritti e dignità anche per i soggetti privati della libertà? La verità è che la categoria dell’emergenza da sempre costituisce un paravento per rimandare i nodi veri e per mettere pezze ai buchi più sconci. Basta ricordare come è finito lo stato di emergenza dichiarato dal ministro Angelino Alfano: progetti di edilizia carceraria, per fortuna solo parzialmente realizzati.

Anche oggi di emergenza si muore, perché sono più di 1.800 i contagiati, 800 tra i prigionieri e 1.000 tra il personale, soprattutto tra gli agenti di polizia penitenziaria. Il diritto alla vita e alla salute è calpestato colpevolmente.

Ragionevoli proposte sono sul tappeto; le hanno presentate i Garanti dei detenuti, le ha ribadite il Presidente di Magistratura Democratica Riccardo De Vito ed è auspicabile che vengano raccolte.

Eppure temo che andremo incontro a una nuova delusione. Perché i riformatori dovrebbero avere la forza di reclamare una profonda discontinuità rispetto a chi sogna un carcere chiuso, dove si incrementa il lavoro non retribuito.

Le questioni sono note. Il “Libro Bianco sulle droghe” da 11 anni denuncia il fatto che il 50 per cento dei detenuti è recluso per violazione della legge proibizionista sulle droghe. Dunque, andrebbe messo subito all’ordine del giorno il cambiamento del Dpr 309/90. La relativa proposta è depositata alla Camera e al Senato da più legislature: occorre percorrere la strada della decriminalizzazione completa del consumo, della legalizzazione della canapa e delle prassi della riduzione del danno. Ventimila detenuti in meno consentirebbero una grande opera di ristrutturazione delle carceri per adeguarle alle norme del Regolamento del 2000 e garantire condizioni igieniche sanitarie accettabili, spazi adeguati allo studio e alle attività funzionali al reinserimento sociale.

Proprio in questo momento, nel pieno della crisi provocata dalla pandemia, va posto come priorità il riconoscimento del diritto all’affettività e alla sessualità delle persone recluse. L’approvazione della legge che è in discussione alla Commissione Giustizia del Senato, con Monica Cirinnà relatrice, indicherebbe la prospettiva di un carcere dei diritti alla fine delle restrizioni in atto oggi per i colloqui con i familiari e i volontari. Sarebbe di monito a che le barriere di plexiglas costituiscano una parentesi e non un ritorno alla stagione dell’afflizione dei banconi divisori.

Un altro tema non dovrebbe essere trascurato: quello dell’ergastolo e del suo superamento, facendo propri l’insegnamento di Aldo Moro e il monito di Papa Francesco, che non ha avuto paura di affermare che “l’ergastolo è il problema, non la soluzione”. Nessuno ricorda che il 30 aprile 1998 il Senato con 107 voti favorevoli, 51 contrari, 8 astenuti approvò il disegno di legge per l’abolizione della pena senza fine; è inimmaginabile che il Parlamento attuale almeno discuta del problema?

Infine, la Società della Ragione ha rivolto un appello a tutti i deputati perché sottoscrivano la proposta di legge n. 2456, a prima firma Riccardo Magi, per restituire potere e responsabilità al Parlamento in materia di amnistia e indulto, modificando l’art. 79 della Costituzione.

Un programma minimo, per innalzare le bandiere del diritto con nuova ambizione e determinazione.