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Sono almeno 200 mila le persone che ruotano annualmente nel sistema di cura e accompagnamento psicosociosanitario con le difficoltà connesse al consumo problematico di sostanze psicoattive ed almeno 1/10 di queste (+ di 20 mila) sono quelle che passano per le strutture residenziali e semi residenziali ogni anno. Le domande, i bisogni e le stesse sostanze usate variano con risposte che sono molto diverse tra loro anche per la presenza sui territori di un sistema estremamente diversificato, con 20 possibili sistemi di risposta diversi essendo 20 le regioni che li normano in maniera totalmente auto referenziata ed in cui la stessa applicazione dei Livelli Essenziali di Assistenza non è garantita ovunque, a scapito dei diritti base soprattutto delle persone con dipendenza o abuso da sostanze psicoattive. Addirittura, nel campo dei servizi pubblici e privati delle dipendenze, lo stesso atto di intesa stato/regioni del 1999 che li doveva normare, non è mai stato applicato totalmente in almeno il 50 % delle regioni italiane. Un ulteriore dato certo è la totale differenziazione per quanto riguarda gli interventi di Riduzione del danno e dei rischi che non sono accreditati e strutturati stabilmente (malgrado i Lea li prevedano da almeno 4 anni) in nessuna regione; presenti in maniera significativa in un 1/3 delle regioni italiane, episodicamente in un altro 1/3 e totalmente assenti in almeno 1/3 delle regioni.
Questo sistema è da anni in grande crisi con riduzioni e ridimensionamenti sempre più forti e disinvestimenti progettuali gravi, malgrado questo, il lavoro di operatori pubblici e del privato sociale da anni permette a questo sistema di funzionare, sperimentare nuovi percorsi, progetti e risposte anche alle nuove domande che arrivano. Sono almeno un milione le persone contattate anche quest’anno con i servizi di Riduzione del danno e dei rischi mantenendo una presenza operativa, nonostante il Covid, presidiando i luoghi più difficili delle città (parco della Groane o Rogoredo, Scampia o Prato).
Il Covid ha smascherato in maniera violenta però molti di questi limiti, con una riduzione delle accoglienze nelle strutture residenziali dovute alla chiusura degli ingressi nelle comunità per i tempi incerti delle quarantene o dei tamponi e per la tutela degli ospiti già in percorso terapeutico. Oppure la riduzione delle presenze nei servizi ambulatoriali vista la pandemia con una distanza sempre più ampia tra servizi e utenti soprattutto se nuovi.
Ecco perchè riteniamo che in una fase di minor allarme, di ripensamento sull’accaduto e di analisi più lucida su ciò che è avvenuto nell’emergenza Covid (ora per fortuna con vittime e danni umani sempre più attenuati), il mondo del terzo settore, dell’associazionismo, del civismo attivo, sindacale e delle rappresentanze dal basso si sta interrogando su come rilanciare un sistema sociosanitario davvero diverso nel nostro Paese. Partendo dalle criticità emerse, bisogna ritrovare tracce e percorsi di un possibile futuro diverso per una riscrittura della nostra organizzazione civile, sanitaria e sociale. Lo dobbiamo fare in un momento di crisi e difficoltà, che da grave emergenza sanitaria si sta trasformando sempre più in una emergenza economica e sociale che ci colpisce come individui, famiglie e collettività. Un momento in cui ancor di più i nostri servizi devono tornare a garantire accoglienza, ascolto, cura e lavoro di comunità territoriale.
Il CNCA e tutto il mondo dell’accoglienza diffusa, (delle comunità famigliari, delle piccole comunità terapeutiche con massimo 15/20 posti e dei percorsi territoriali di supporto, dell’housing e delle residenziali leggere e semi autonome, dell’accompagnamento alle persone in difficoltà ed ai loro contesti e famiglie, con un forte legame con le comunità territoriali, dei servizi di RDD e RDR) chiedono un cambiamento strutturale che della crisi facciano memoria ed esperienza. Questo mondo di piccoli servizi, diffusi, di prossimità, ha affrontato l’emergenza ottenendo importanti risultati, seppur diversificati, positivi nella tutela e nella salvaguardia delle persone più vulnerabili.
Non si può dire altrettanto per altri settori del welfare, soprattutto dove operano strutture “pesanti”, a forte impatto istituzionalizzante (Rsa, ospedali ecc.), dove la logica ospedalocentrica (e ricoverocentrica) si è rivelata fallimentare e ha perfino aggravato gli effetti della pandemia. Mentre i tagli di bilancio alla sanità pubblica di questi anni, indebolendo in particolare i servizi sociosanitari territoriali e la medicina di prossimità, o non stabilizzando RDD e RDR, hanno trovato il SSN impreparato e hanno rischiato di trasformare quello che era un serio problema sanitario, la pandemia, in un’emergenza inarrestabile, che ha stravolto l’insieme delle società, la vita delle persone e le loro relazioni sociali.
Mentre in grandi e “pseudo efficienti” strutture le persone si infettavano e morivano (sia pazienti che operatori sociosanitari, troppo spesso abbandonati e rimasti senza nemmeno dispositivi di tutela individuale per mesi), una estesa e variegata rete di piccole realtà diffuse nel territorio ha curato e salvato un numero notevole di persone.
Così si sono ospedalizzati numeri minimi di ospiti. Questo mondo diffuso di accoglienza e di supporto ha avuto come cifra comune della sua reazione al virus, la personalizzazione degli interventi, l’attenzione alla prevenzione e all’intervento precoce e ad evitare il concentramento delle persone. Sono perciò stati chiusi subito diversi servizi per proteggere ospiti e operatori, organizzando attività alternative come i contatti quotidiani con le famiglie via web.
Nei servizi dell’accoglienza diffusa territoriale (le piccole comunità) si sono dovuti gestire anche problemi sanitari. Lo si è fatto come sempre in collaborazione con medici di base o territoriali. Questo ha confermato l’importanza di una presa in carico organizzata (e integrata da un punto di vista sanitario e sociale).
Si è agito con interventi individuali, in maniera quasi sartoriale con le persone. È stata affermata così una “cultura del Care”: cioè del prendersi carico complessivamente dell’altro (sia esso persona anziana, minore, tossicodipendente, disabile o con problemi di salute mentale).
Uscire da un modello che non considera la persona come priorità
L’elemento dirompente che la drammatica emergenza sanitaria e sociale ci consegna è la consapevolezza che un modello fondato sul pensiero unico del mercato e sulla priorità del profitto nella sanità e nella cura delle persone non garantisce protezione alcuna. Ora, nella nuova fase dopo un inverno durissimo, si tratta di scegliere la salute come bene comune primario ed inviolabile e quindi aprire un conflitto propositivo e generalizzato anche per riscrivere il modello sociale ed economico.
Elemento strutturale di questa riscrittura è “nessuno resti indietro”. Che metta sullo stesso piano dei diritti il consumatore motivato con quello ancor coinvolto nelle sue fatiche. Questa è la base di un diverso patto sociale e di una proposta di cambiamento di cui il terzo settore, la cooperazione non profit più seria, l’associazionismo diffuso, gli enti locali, il sindacato e gli operatori del servizio pubblico devono diventare motore. Sono i principi di prossimità, di promozione della persona, di protagonismo e di responsabilità diffusa quelli attraverso i quali le realtà dell’economia sociale e solidale vogliono essere non più solo enti gestori ma protagonisti attivi di cambiamento ed innovazione a tutti i livelli. Una esperienza che ha accentuato fragilità e spaesamento nel tempo sospeso dell’emergenza. Allo spaesamento si aggiunge, per i meno fortunati, la solitudine, la fatica del sopravvivere e, nei contesti più fragili, si ampliano tensioni, conflitti e perdite di senso, basti pensare agli effetti del lockdown sul mondo dei senza dimora. Occorre immaginare gli scenari possibili che ci aspettano e quali possano essere le ipotesi di cambiamento e le innovazioni possibili.
I “Piloti” per guidare questa nuova coesione sociale sono gli enti locali, la medicina territoriale ed il Terzo Settore che coprogettano così un nuovo Welfare efficace, efficiente e appropriato.
Infine, e in estrema sintesi, è illuminante la descrizione della Corte dei Conti, nel suo annuale rapporto sulla finanza pubblica, della crisi sanitaria in Lombardia: “La mancanza di un efficace sistema di assistenza sui territori ha lasciato la popolazione senza protezioni adeguate” Il modello sanitario lombardo che ha concentrato gli investimenti sanitari e sociosanitari nei grandi ospedali e facilitato – accorpandole – le grandi strutture di accoglienza sociosanitarie (es. Pio Albergo Trivulzio) mentre le strutture di base integrate sono rimaste sguarnite. La Corte continua: “una adeguata rete di assistenza sul territorio non è solo una questione di civiltà a fronte delle difficoltà del singolo e delle persone con disabilità e cronicità, ma rappresenta l’unico strumento vero di difesa per affrontare e contenere con rapidità fenomeni come quello che stiamo combattendo. L’insufficienza delle risorse destinate al territorio ed a tutto il sistema sociosanitario ha reso ancor più tardivo ed ha fatto trovare disarmato il primo fronte che doveva opporsi al dilagare della malattia.”
Per garantire questo va organizzata nel settore connesso al mondo dell’abuso e della dipendenza una revisione delle legge attuale, la Conferenza nazionale, seppur in ritardo di 20 anni, va convocata la nuova Consulta, scritto il piano nazionale di intervento, uniformato il sistema di intervento sostituendo i 20 sistemi regionali attuali spesso estremamente limitati e privi di alcuni dei servizi indispensabili e ripristinato il Fondo nazionale antidroga per promuovere ricerca, innovazione ed evoluzione dei servizi.
Alla nuova ministra Dadone i nostri migliori auguri e stimoli.