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L’appuntamento triennale della Conferenza Nazionale Governativa sulle droghe fu introdotto nel nella legge del 1990, Jervolino-Vassalli (allora rispettivamente ministri degli Affari Sociali e della Giustizia del governo di colazione di democristiani e socialisti guidato da Giulio Andreotti). Insieme alla Relazione Annuale al Parlamento, fu il frutto della battaglia delle opposizioni durante la discussione parlamentare. Poiché il disegno di legge del governo introduceva un giro di vite repressivo (in particolare punendo il semplice consumatore), le opposizioni chiesero strumenti per monitorare gli effetti delle nuove norme e riportare in Parlamento la discussione circa i risultati e gli indirizzi delle politiche antidroga.
Così, mentre l’art.131 del 309/90 richiede al Ministro per la Solidarietà Sociale di presentare, entro il 30 giugno di ogni anno “una relazione al Parlamento sui dati relativi allo stato delle tossicodipendenze in Italia, sulle strategie e sugli obiettivi raggiunti, sugli indirizzi che saranno seguiti”, la Conferenza Nazionale è prevista all’art.1, comma 15, precisamente nell’ambito degli “Organi di coordinamento dell’azione antidroga”: disponendo che lo stesso Presidente del Consiglio convochi ogni tre anni la Conferenza, le cui conclusioni “sono comunicate al Parlamento anche al fine di individuare eventuali correzioni alla legislazione antidroga dettate dall’esperienza applicativa”.
Se le Relazioni Annuali al Parlamento non hanno mai davvero offerto gli strumenti adatti per verificare le “strategie e gli obiettivi raggiunti”, la Conferenza è addirittura caduta in oblio. In barba alla legge e nonostante le innumerevoli sollecitazioni delle ONG, arrivate fino alla diffida formale al governo nel 2017, la Conferenza Nazionale non è più stata convocata da dieci anni. Di fronte al Ministro degli Interni che minaccia nuove svolte repressive senza che uno straccio di discussione abbia avuto luogo, né in Parlamento né tantomeno nel paese, è giusto riprendere con forza la battaglia per avere un luogo di confronto vero, fra consumatori, operatori, policy maker, cittadini e cittadine. La Conferenza autoconvocata che proponiamo è uno strumento di “obbedienza civile”, in nome della legalità.
L’appello alla “legalità” è ambiguo, tanto più quando questa è invocata a destra e a manca. Lo sappiamo bene. In nome della legalità, si dichiarano illegali i migranti in quanto tali, per il fatto di trovarsi su un suolo dove non si è nati. In nome della legalità, un governo può violare la legge: come ha fatto un anno fa il ministro Matteo Salvini, intimando il respingimento delle navi dei migranti contro norme di diritto nazionale e internazionale.
In questo scenario, l’autoconvocazione della Conferenza Nazionale assume un valore politico che va oltre la pur importante questione droga. Rientra nei tentativi – in vari ambiti – di riproporre un corretto scambio fra società civile e istituzioni, di rilanciare un’idea di politica come spazio di idee, di esperienze, come amore per il merito delle questioni: al posto della cinica manipolazione degli umori del “popolo”.
Organizzare la Conferenza dal basso non è impresa facile. Se tutti i Presidenti del Consiglio che si sono succeduti in dieci anni hanno potuto ignorare il vincolo di legge della Conferenza triennale, ciò significa pur qualcosa. Forse alcuni hanno voluto evitare un tema tradizionalmente “scomodo” fra le forze politiche e con scarse possibilità di guadagnare consensi (si pensa). Altri hanno ritenuto che la droga non fosse più un trampolino di lancio per politiche “d’ordine”, e che anzi un’assise nazionale avrebbe portato a indicazioni diverse. Dopotutto la legge manifesto della seconda svolta punitiva (la Fini-Giovanardi del 2006) è stata fatta a pezzi dalla Corte Costituzionale nel 2014 (A ricordo di quanto abbiamo lottato e insistito sull’incostituzionalità della legge, basta scorrere i numeri di Fuoriluogo di quegli anni e rileggersi gli articoli di Sandro Margara). Altri ancora – chissà- hanno pensato che anche la Conferenza fosse un “costo della politica” di cui sbarazzarsi, mettendo nello stesso sacco d’infamia la “casta” e la democrazia (non è questo ciò che sta succedendo con Radio Radicale e coi i tagli al Manifesto e ad altre testate?).
Come sempre, la droga è al centro della politica e precorre le tendenze. E’ bene riflettere a fondo, ora che Matteo Salvini annuncia una nuova svolta punitiva e – dalla tragedia alla farsa – minaccia gli outlet della cannabis legale, novello Capitan Uncino contro i Peter Pan della droga che non c’è. E ora che la “modica quantità”, in odio a Craxi alla fine degli anni ottanta, è tornata in bocca agli attuali governanti, con la stessa carica simbolica di “pugno duro” di allora. I simboli vanno presi sul serio, specie quando ostentati come tali, visto che la “modica quantità” in quanto articolo di legge non esiste più dal 1990.
Ripercorriamo dunque la storia delle Conferenze e del dibattito che lì si è svolto (o si sarebbe dovuto svolgere), per capire meglio i nodi attuali. Almeno quelle degne di questo nome, perché le ultime (la seconda Conferenza di Palermo e quella di Trieste del 2009) sono state poco più che pulpiti di propaganda dei governi di centro destra, sotto la sciagurata gestione dell’allora “zar” antidroga Carlo Giovanardi e del capo Dipartimento Giovanni Serpelloni.
Per meglio prendere lo slancio, retrocediamo un poco: fino alla prima Conferenza di Palermo del 1993, che dovette fare i conti con la bocciatura popolare attraverso il referendum della legge Jervolino- Vassalli del 1990. Quella che aveva stabilito la punizione del consumatore, abolendo la famigerata “modica quantità”, per l’appunto.
La Conferenza di Palermo si articola ancora sulle coordinate culturali e politiche dei due schieramenti parlamentari che si fronteggiarono nella discussione del disegno di legge Jervolino Vassalli. Di più: quelle coordinate delimitarono il dibattito anche negli anni successivi, fino ai giorni nostri, a giudicare dal fatto che la “modica quantità” è ancora fra noi, a distanza di quarant’anni. Mai come ai tempi della prima svolta punitiva della Jervolino Vassalli, i vari paradigmi di interpretazione dell’uso di droga si palesano con chiarezza, nella diversità e nel conflitto, ma anche nelle convergenze.
Chiarire questo scenario paradigmatico è essenziale, per leggere la storia e costruire il futuro.

Fra criminalizzazione e patologizzazione
La vittimizzazione del tossicodipendente e l’appello ambiguo alla “solidarietà sociale”

(brano liberamente tratto e tradotto da “Italian Drug Policy” di Grazia Zuffa, in European Drug Policies. The Ways of Reform (2017), a cura di Renaud Colson e Henri Bergeron, Routledge, Abingdon, Oxon, pp.115-127)

Due approcci principali hanno dominato le politiche sulle droghe durante il secolo scorso: i modelli morale e medico (disease), solitamente ritenuti alternativi l’uno all’altro. Secondo il modello morale, l’uso di droghe è visto come un comportamento deviante meritevole di punizione. In questa prospettiva, le droghe sono un problema criminale. Nel modello medico, l’uso di droghe è il preliminare della tossicodipendenza, una malattia che ha bisogno di trattamento; le droghe sono perciò un problema di salute. I due modelli sono meno alternativi tra loro di quanto possa apparire. In primo luogo,  entrambi si concentrano sulle proprietà chimiche dannose, che creano dipendenza, delle droghe, con scarsa se non nessuna attenzione rivolta ai fattori ambientali e sociali, quali i danni della criminalizzazione, dell’emarginazione sociale e il ruolo della povertà e della stigmatizzazione nel promuovere i modelli più dannosi di consumo di droga.
Nel modello morale, si esalta il danno (chimico) delle droghe in modo da giustificare la proibizione. Le stesse proprietà chimiche dannose sono considerate il fattore causale della dipendenza, nel modello medico. Di conseguenza, entrambi i modelli vedono l’astinenza come l’obiettivo finale. Capire ciò è fondamentale per comprendere le differenze (ma anche le somiglianze) tra i sostenitori della “linea dura” e i sostenitori della “linea mite”, nel duro dibattito pubblico che si è svolto in Italia sulla revisione della legislazione sulla droga del 1990 e sul referendum abrogativo di quella legge nel 1993.
Il fronte contrario alla svolta punitiva dette vita a un’alleanza di ONG, significativamente chiamata Educare e non punire. La coalizione fu inaugurata nella primavera del 1989, riunendo molti gruppi e associazioni (soprattutto cattolici) che lavoravano nel sociale e nei servizi per la tossicodipendenza. Il cartello Educare e non punire conduceva una campagna per misure di welfare a favore dei tossicodipendenti, per aiutarli a uscire dalle difficoltà psicologiche e sociali offrendo prevenzione, cura e riabilitazione per la tossicodipendenza. Al tempo stesso denunciava il ruolo dannoso della legge punitiva propugnata dal governo: le sanzioni non avrebbero avuto alcun effetto deterrente, ma avrebbero invece “biasimato la vittima”, aggiungendo la punizione alla povertà e all’emarginazione sociale. Il cartello si appellava con forza alla cultura della solidarietà sociale e rivendicava l’approccio di welfare alla base della legge sulla droga non punitiva del 1975; come anche di altre importanti leggi innovative, dalla legalizzazione dell’aborto (legge 194/1978) alla riforma dell’assistenza psichiatrica (legge 180/1978).
Ma la solidarietà sociale era anche uno dei leitmotiv dei sostenitori del regime punitivo. Nel dibattito parlamentare, essi propugnavano una “solidarietà attiva e militante”, in opposizione al “pietismo” impotente e alla “cultura debole” della tolleranza e dell’indifferenza egoista. Questa filosofia è stata definita da Luigi Manconi ‘solidarismo autoritario’: un misto di severità pubblica e controllo sociale, di paternalismo istituzionale e di punizioni a “fin di bene”.
Da questa prospettiva, la criminalizzazione del consumo di droga e la minaccia dell’incarcerazione per i tossicodipendenti è vista come la via d’accesso al trattamento e alla riabilitazione.
Questa forma di riabilitazione forzata (o quasi forzata) è coerente con una visione particolare della dipendenza: si pensa che le droghe “si impossessino” dei consumatori, che così non sarebbero più in grado di gestire le proprie vite. Questa idea di tossicodipendenza ha molto in comune con la rappresentazione tradizionale dei pazienti psichiatrici (prima del cambio di filosofia introdotto dalla riforma Basaglia): sia i matti che i tossicodipendenti sono considerati incompetenti e incapaci di prendersi cura di loro stessi. Perciò, non dovrebbero avere gli stessi diritti degli altri cittadini. Lo stato ha il diritto e il dovere di limitare la loro libertà e di segregarli: i matti in manicomio, i drogati in carcere e/o in trattamento forzato o quasi forzato.
Nonostante le molte differenze nel concetto di riabilitazione tra sostenitori della “linea dura” e della “linea mite”, l’enfasi bipartisan sulla solidarietà sociale li portò a trovarsi d’accordo sullo sviluppo di servizi per curare la tossicodipendenza: furono così inseriti e finanziati i Servizi pubblici per la Tossicodipendenza (SerT) nella stessa legge punitiva sulle droghe del 1990. Inoltre, furono introdotte alternative terapeutiche all’incarcerazione per i tossicodipendenti condannati a pene detentive al di sotto dei quattro anni (o che scontavano gli ultimi quattro anni di carcere). Da notare che il limite dei quattro anni per i tossicodipendenti era, almeno sulla carta, più favorevole di quello stabilito per le alternative ordinarie.
Il modello medico o “malattia” (disease) ha un altro punto debole, che merita di essere sottolineato. Volendo risparmiare la punizione al tossicodipendente, si esalta la gravità della sua malattia; la dipendenza è considerata una malattia cronica e recidivante. I tossicodipendenti sono “vittime della droga”: spinti dal craving, non hanno altra scelta che continuare a usare la droga e commettere reati (come spaccio e furto) per mantenere la loro dipendenza. L’incarcerazione è considerata come una risposta ingiusta al consumo di droga, perché i tossicodipendenti hanno una sorta di “responsabilità limitata” per le loro azioni.
Gli svantaggi della “vittimizzazione” sono stati ampiamente analizzati nella letteratura sociologica. Per quanto riguarda in particolare le droghe, i consumatori in quanto “vittime della droga” pagano un prezzo elevato per il fatto di essere risparmiati dalla punizione. Prima di tutto, la responsabilità limitata dei tossicodipendenti ha conseguenze nel campo della cura, poiché legittima forme autoritarie di trattamento che limitano la libertà di scelta degli utenti, sia nella decisione di sottoporsi o meno al trattamento che nella scelta di trattamento disponibile. A causa della rappresentazione sociale del consumatore “impotente”, le peculiarità e gli svantaggi delle alternative terapeutiche quasi-coercitive non furono rilevati e discussi. Anzi, queste forma di cura furono salutate con favore da chi si opponeva alla punizione.
In secondo luogo, la “vittimizzazione” dei tossicodipendenti porta con sé la iper-criminalizzazione degli spacciatori di droga, rappresentati come criminali odiosi e “venditori di morte”, a dispetto del fatto che molti tossicodipendenti sono anche spacciatori.
Per queste ragioni, ridurre le sanzioni per lo spaccio e il traffico non è mai rientrato nell’agenda di nessun governo, neanche in quella dei fautori di politiche miti. Inoltre, se è vero che la malattia della dipendenza protegge i tossicodipendenti dalla punizione, che dire dei consumatori non sono tossicodipendenti? Sono da ritenersi pienamente responsabili del loro comportamento? Forse questa è la più grande ambiguità del modello malattia nella versione italiana della solidarietà sociale.
Infatti, nel tentativo di difendere la non-punibilità del possesso di droga a uso personale, contenuto nella legge del 1975, alcuni esponenti della “linea mite” avanzarono l’idea di riservare la rinuncia alla punizione ai tossicodipendenti, avanzando il dubbio che la stessa riserva potesse valere per i semplici consumatori ricreativi di cannabis o di cocaina, non affetti dalla malattia e dalla condizione di “miseria” della tossicodipendenza.
In altre parole, il modello malattia non mette in discussione la visione del consumo di droga come comportamento illecito. A riprova, nel dibattito parlamentare sulla svolta punitiva, anche gli oppositori che difendevano la legge del 1975 e la non punibilità del consumo personale, offrirono una rigorosa interpretazione “morale” di quella legge: a loro parere, la legge della “modica quantità” aveva chiaramente stabilito l’uso di droghe come illecito (anche se non punibile), e così doveva essere.
Al fondo, la ribadita enfasi sul danno della dipendenza si sposa con l’atteggiamento moralistico nei confronti del consumo di droga ed entrambi supportano la proibizione. Ecco perché quelli che sostengono la non punizione (in nome della “solidarietà sociale”) sono sempre stati riluttanti a unirsi ai non proibizionisti e ai sostenitori della legalizzazione della cannabis. Il valore simbolico del diritto penale, di condanna morale del comportamento, non è di per sé messo in discussione: esso rimane, a tutela dei soggetti più deboli e vulnerabili, per i quali si chiede una “riserva” in fase di applicazione del regime proibizionista.

Dopo il referendum, la Conferenza di Palermo del 1993

Palermo è il primo grande appuntamento politico sulle droghe dopo il referendum popolare del 1993, che aveva abrogato parti significative della legge Jervolino Vassalli, approvata tre anni prima: in specifico, la norma manifesto di divieto di assunzione di sostanze stupefacenti; le sanzioni penali per il consumo (ma non quelle amministrative, che sopravvivono ancora oggi); gli articoli circa l’utilizzo dei farmaci sostitutivi (metadone), che limitavano la libertà terapeutica.
Nel nuovo clima post referendario, il termine riduzione del danno compare ufficialmente per la prima volta nelle parole di una esponente di governo. E’ la ministra Fernanda Contri a nominarla, proponendo di affiancarla agli altri interventi più tradizionali, sotto il coordinamento dei SerT.
E’ evidente il mutamento di rotta politica rispetto al 1990. Scompare la comunità terapeutica vista come “la soluzione” alla dipendenza: le comunità terapeutiche mantengono un posto di rilievo nel sistema di cura, ma i servizi pubblici diventano il fulcro del sistema. Con la riduzione del danno, viene meno anche l’ l’obiettivo “unico” dell’astinenza nella cura della dipendenza: i trattamenti con metadone “a mantenimento” sono così legittimati.
Il significato simbolico della punizione del consumatore, tanto discusso in sede di esame parlamentare della legge Jervolino Vassalli, torna nelle parole di Giuliano Amato, a suo tempo uno dei sostenitori della svolta punitiva.
Se da un lato Amato non rinnega l’idea che “l’assoluta liceità del consumo” sia “espressione di disinteresse per il drogato”; tuttavia ammette di avere cambiato le sue convinzioni. “Sono arrivato alla conclusione – afferma- che anche una disciplina fondata sull’illiceità può dar luogo allo stesso risultato di disinteresse per il futuro o l’attuale consumatore”. E si rifà al principio di riduzione del danno e alle esperienze dei paesi nord europei come l’Olanda, in cui il giudice non applica la sanzione penale e può contare sul medico “al quale risulta affidato il compito di somministrare anche droga” al giovane assuntore in maniera controllata per portarlo a un minor consumo e ridurre i danni.
E’ importante ricordare che uno dei gruppi di lavoro della Conferenza riguardava proprio la riduzione del danno, ed era coordinato da Luigi Manconi.
Alla fine dei lavori, il gruppo stende un programma articolato di politiche di riduzione del danno, sia sul versante sociosanitario che penale (dal potenziamento dei programmi con metadone, alla sperimentazione di trattamenti con eroina, agli interventi di prevenzione dell’AIDS in carcere, fino all’alleggerimento del trattamento penale per la cannabis et.). In questa prospettiva, la riduzione del danno conquista il respiro di approccio alternativo al problema droga e segna una discontinuità col corso fino allora seguito.
Non tutti però furono d’accordo. Dalla Conferenza di Palermo emergono infatti due diversi modi di intendere la riduzione del danno (e su queste due linee il dibattito si dipanerà fino ai giorni nostri): nella prima accezione, essa è vista come una strategia di governo politico complessivo del problema droga, attenta perciò a contenere i danni anche delle normative repressive e proibizioniste; nella seconda, essa si iscrive nell’ambito strettamente sociosanitario, come insieme di interventi che si affiancano a quelli tradizionali.

Napoli 1997, la via italiana alla riduzione del danno

La Conferenza di Napoli del 1997 ha rappresentato un momento di intenso dibattito politico, in gran parte imperniato intorno alla riduzione del danno. Le pratiche di riduzione del danno sono in pieno sviluppo in Europa, anche in Italia si stanno consolidando in quegli anni. Le due accezioni della riduzione del danno di cui si è detto continuano a fronteggiarsi. Dal 1995, prende avvio un movimento che investe le città, con le prese di posizione di molti consigli comunali: da Torino a Venezia, da Bologna a Firenze, insieme a molte altre città minori, le città reclamano un mutamento di rotta.
All’ipotesi riformista dà voce un documento, elaborato proprio in vista della Conferenza, che propone: il completamento della depenalizzazione del consumo personale iniziato col referendum, la legalizzazione della cannabis, l’espansione della riduzione del danno e la sperimentazione di nuovi interventi (in specie, i trattamenti con eroina). Si propone anche di innovare i processi della decisione politica, dando nuove competenze ai Comuni e prevedendo la partecipazione vasta di soggetti sociali, in primis i consumatori di droghe.
A livello governativo, l’obiettivo è di “sdoganare” la riduzione del danno, facendo sì che sia accettata il più largamente possibile dal vasto mondo delle comunità terapeutiche, molte delle quali ancora riluttanti a rinunciare all’obbiettivo unico dell’astinenza e ad accettare i trattamenti con metadone non finalizzati al passaggio veloce all’astinenza. Come conseguenza, non solo la questione penale è relegata sullo sfondo, la riduzione del danno viene accolta in quanto sfrondata il più possibile della sua valenza di discontinuità con le politiche tradizionali. Ciò è evidente nello slogan stesso della Conferenza, lanciato dalla ministra Livia Turco: “Contro le droghe, cura la vita”. “Contro le droghe” riecheggia la retorica della “guerra alla droga”, in linea col “A drug free world, we can do it” dell’Assemblea Generale ONU sulla droga dell’anno successivo. “Cura la vita” allude invece alla riduzione del danno, ma senza nominarla (il che è altamente significativo, sul piano simbolico e politico).
Il documento del gruppo di lavoro sulla riduzione del danno si apre con una dichiarazione “etica” che da un lato ribadisce la subordinazione della riduzione del danno all’obbiettivo dell’astinenza “che deve rimanere in ogni caso l’obiettivo ultimo di tutti gli interventi”, come è scritto a chiare lettere; dall’altro, l’apertura a interventi non finalizzati all’astinenza (quando il tossicodipendente non abbia ancora scelto quella via) è basata – si dice- “sull’amore per l’essere umano”. Ciò però non impedisce una chiara e dura condanna morale di chi consuma droga per “la sua condotta auto ed etero distruttiva”.
Come sempre, il proclama etico non è fine a sé stesso: serve per respingere gli interventi di cosiddetto “pragmatismo esasperato”, che “negano la possibilità per tutti di accedere a una condizione di vita libera dalle droghe”. L’allusione è ai trattamenti con eroina, ma anche alle “Stanze del consumo sicuro” (Safe Injecting Rooms). E infatti in Italia queste sperimentazioni non avranno mai corso.
Ciononostante, Napoli 1997 rimane una tappa importante. Il gruppo di lavoro sulla cannabis conclude il suo rapporto proponendo di sperimentare la legalizzazione. La proposta non passa, ma la Conferenza si pronuncia positivamente sulla completa depenalizzazione del consumo. Questa indicazione sarà accolta dal governo, che si impegnerà a rendere effettiva la depenalizzazione del consumo e delle condotte a esso funzionali e a rafforzare la riduzione del danno. Al di là delle mozioni finali, è interessante l’interesse suscitato dalla Conferenza, specie fra i giovani. Le politiche della droga si dimostrano centrali, nello snodo fra penale e sociale.

Genova 2000, lo stallo della riforma

Nonostante gli esiti della Conferenza di Napoli, la depenalizzazione completa del consumo trova un ostacolo nelle campagne di allarme sul tema sicurezza, che il governo di centro sinistra nella sostanza asseconda. Anche sul fronte della riduzione del danno, permangono le resistenze ideologiche che si esprimono in parlamento nella discussione circa il Fondo antidroga. In questo clima, un ampio Cartello di associazioni che spingono perché la Conferenza rilanci le modifiche sul fronte penale e dia il via libera alla sperimentazione di interventi innovativi di riduzione del danno (i trattamenti con eroina). Rispetto a Napoli, lo schieramento del Cartello “Per un’altra politica delle droghe” è più ampio.
Illuminante l’articolo di Livio Pepino su Fuoriluogo (giugno 2000) a pochi mesi della Conferenza. Scrive l’autore: “Sono passati oltre sette anni da quando, il 18 aprile 1993, alcuni articoli del testo unico sugli stupefacenti (DPR 309/90) furono cancellati, col 55,3% dei voti espressi, dal referendum. Caddero, fra l’altro, la formalizzazione del “divieto di drogarsi” (art.72.1), l’assimilazione fra spacciatore e consumatore in possesso di una quantità di sostanza superiore alla dose media giornaliera, le sanzioni penali previste in seconda battuta anche per il consumatore attento a non tenere con sé più del fabbisogno quotidiano. Sembrava l’apertura di un nuovo corso… così non è stato e la strada aperta dal referendum si è interrotta prima di una seria sperimentazione delle sue potenzialità.” La via indicata da Pepino è di modificare il sistema – tarato sul grande spaccio, “con il risultato di escludere una considerazione autonoma, in punto pena, dello spaccio di strada del tossicodipendente”; e propone la riduzione delle pene medie (da due ai sei anni) con previsione di una ipotesi di “lieve entità” e di “particolare gravità”, la diminuzione della pena per chi commette reato “in relazione al proprio stato di tossicodipendenza” e per la cessione gratuita di sostanze, razionalizzazione delle sanzioni amministrative.
Molte di queste linee erano già contenute nella bozza di disegno di legge predisposta nel 1999 da una commissione del Ministero di Giustizia, che però rimase nel cassetto.
La mobilitazione per Genova è arricchita dalla nascita di una rete antiproibizionista di centri sociali (MDMA): il Cartello “Per un’altra politica delle droghe” gestisce durante la Conferenza spazi di dibattito paralleli (presso la sede di San Benedetto al Porto) su temi scottanti, oltre quelli ufficiali, come “carcere, depenalizzazione e decriminalizzazione della vita quotidiana dei consumatori”. Inoltre, il Cartello e la rete MDMA impongono un nuovo gruppo di lavoro sulla riduzione dei rischi delle “nuove droghe” (sintetiche) e sul drug checking.
La Conferenza di Genova passa alla storia per la ricchezza del dibattito e per lo scontro nel governo: da una parte il ministro Umberto Veronesi apre alla legalizzazione della cannabis e caldeggia la sperimentazione dei trattamenti con eroina; dall’altra il presidente del Consiglio Amato (peraltro assente da Genova) chiude il dibattito sul nascere.
La Conferenza di Genova è un interessante osservatorio sulla politica in generale, per come sta cambiando veste: Veronesi discute nel merito delle questioni e trae indicazioni per le politiche dalle evidenze scientifiche disponibili. Amato definisce il suo approccio “tecnico”, contrapposto al “politico” della pura negoziazione fra le forze politiche (nel governo non c’è accordo sulla depenalizzazione, fa sapere il presidente del Consiglio). Quanto al movimento, sta diventando una “anomalia di sistema”, per una politica ormai distaccata dalla scienza, dalla cultura, dall’esperienza.

Da Palermo II a Trieste 2009, la parabola delle Conferenze farsa

Le conferenze di Palermo II e l’ultima di Trieste del 2009 non hanno storia. Non solo il governo non rispetta più (non a caso) la scadenza triennale, tanto che nel 2005, a Bologna si svolge una grande Contro Conferenza organizzata dalla società civile sotto l’egida della Regione Emilia Romagna e dell’assessore Gianluca Borghi. Quando finalmente sono convocate, Palermo II e Trieste 2009 si rivelano una farsa: la prima finalizzata a ricercare consensi per il contrastato disegno di legge Fini Giovanardi, sia nel parlamento che nel paese; la seconda, a legge approvata con forzature anticostituzionali, lascia spazi solo per legittimare la svolta punitiva a posteriori. Una parte significativa del movimento riformista non partecipa ai lavori, e organizza spazi di discussione e mobilitazione fuori dalle sedi ufficiali.
E’ bene rileggere un articolo di don Andrea Gallo alla vigilia di Trieste, scritto per motivare la sua adesione all’appello di mobilitazione “Trieste è vicina”. Le sue parole ci sono utili pensando alla Contro Conferenza che ci sta davanti, nei contenuti di lotta che propone, ma soprattutto nello spirito che li anima, condensato nell’invito a “pensare in grande”.

Conferenza sulla droga, è ora di pensare in grande

di don Andrea Gallo,
Comunità San Benedetto al Porto
Gennaio 2009

L’adesione all’appello promosso da Fuoriluogo “Trieste è vicina”, per una mobilitazione in vista della prossima Conferenza Governativa sulle droghe, è stata per me, in questi tempi bui, una fonte di liberazione.
La Comunità San Benedetto al Porto è sul territorio dagli anni settanta, con un rigoroso percorso di partecipazione democratica laica antifascista. Rispunta il sottosegretario Giovanardi che prepara per marzo a Trieste la conferenza prevista dalla legge. L’annuncio è perentorio e lapidario: la legge Fini Giovanardi del 2006 non si tocca. Basta applicarla.
Di fronte all’ennesima insolente imposizione retriva, non scientifica, in controtendenza con numerose iniziative europee, quali risposte esprimere dal basso che abbiano un senso? L’incontro promosso dai firmatari dell’appello potrebbe diventare il detonatore di una nuova mobilitazione nazionale per smascherare la politica governativa imperniata sulla “droga brucia-cervello”: in linea con le altre scelte che stanno cambiando definitivamente questo paese, dalla privatizzazione delle università, a quella dell’acqua, alla ripresa del nucleare, fino alle gloriose “missioni di pace”.
Per lo specifico delle sostanze psicoattive, il nostro orientamento può essere riassunto in tre linee guida:
la riduzione dei danni e delle sofferenze individuali e collettive che il triste fenomeno droga produce
il necessario, graduale (e difficile) smantellamento della costruzione sociale, morale e giuridica del problema droga che sorregge e amplifica questa sofferenza
una strategia di cura, prevenzione e abilitazione che produca un contenimento della domanda di droga. La legge attuale pone come irrinunciabile il “dovere” di cura, magari forzata. Noi partiamo dal “diritto di cura”, che contempla il diritto all’autodeterminazione, il diritto a uscire dalla dipendenza, il diritto alla pratica della libertà.
(Da questo appello e dalla conseguente mobilitazione) può nascere un programma partecipativo a largo respiro, non ideologico ma profondo e credibile, da inserire nel discorso complessivo della lotta per i diritti civili e sociali, contro le vecchie e nuove esclusioni sempre più numerose.
Pensiamo sia indispensabile coinvolgere tutte le agenzie educative: la famiglia, la scuola, la Chiesa, il mondo dello sport, i mass media. (..)Abbiamo un pensiero e una pratica “forte” in termini di valore e cultura. Pratica che si fonda sui principi irrinunciabili della democrazia, per affrontare, prima che sia troppo tardi, il dramma, il nichilismo delle vecchie e nuove generazioni (..) Arrivederci con un augurio: pensare alla grande!