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È di poche settimane fa la bagarre nata intorno al cantante del gruppo che ha vinto un festival musicale europeo, accusato di aver assunto cocaina. Il cantante in questione, al fine di dimostrare ogni estraneità all’uso di sostanze, oltre a dichiarare la propria contrarietà “alla droga”, si è sottoposto al test, per dimostrare nei fatti quanto affermato.
Poche settimane prima, una Parlamentare, segretaria di un partito nazionale, si era sottoposta pubblicamente, in piazza, al test del capello, per denunciare, così affermava, una situazione fuori controllo riguardo l’uso di sostanze, e la stessa Ministra Dadone aveva poi rilanciato l’invito a tutti i Parlamentari a sottoporsi al test, motivando tale invito con il fatto che “si può essere a favore della legalizzazione della cannabis senza essere consumatori di sostanze”. Il senso di tutto questo è evidente: dare una immagine positiva di sé, moralmente irreprensibile, legata al fatto di non fare alcun uso di sostanze.
È del tutto evidente il pensiero che informa tutto questo: il doversi dimostrare esenti da comportamenti sbagliati, immorali, persino criminali. È infatti noto a tutti, ed i resoconti anche di questo Libro Bianco ne danno evidenza, di come l’uso di sostanze sia una delle cause principali di sovraffollamento nelle carceri.
Mentre, come sostiene Claudio Cippitelli in un articolo sul “Manifesto” del 2 giugno scorso: “avremmo bisogno di coraggio per opporci ai danni che le politiche basate sulla guerra alla droga producono: i drug test non sono strumenti neutri, ma metodiche spesso usate come clave per colpire studenti e lavoratori con stili di vita non graditi”
Come nel caso di quei lavoratori che improvvisamente non erano più eroi, caduti nell’adempimento delle proprie mansioni, ma ben altro, perché positivi ad un test antidroga, indipendentemente dalla sostanza usata, da quando fosse stata usata, dagli effetti concreti e reali sulle prestazioni lavorative. Ricordiamo tutti, con dolore, il caso dei tre vigili del fuoco, morti ad Alessandria mentre spegnevano un incendio in una cascina, e come, da angeli volati in cielo sono improvvisamente divenuti angeli caduti nel fango (gli eroi perdono il loro mantello, scriveva un quotidiano locale) perché l’autopsia aveva rivelato che 2 di loro erano positivi alla cannabis, uno alla cocaina. Non sappiamo quando e come avessero assunto quelle sostanze, delle quali erano state rilevate tracce, e neanche ci interessa: stavano svolgendo il loro lavoro, e non è affatto detto, e tantomeno dimostrato, che quelle sostanze avessero stravolto la loro vita, o li avessero resi incapaci di svolgere seriamente il loro compito
Ormai, tutte le evidenze scientifiche dimostrano che la presenza di tracce di sostanze nelle urine, o nel capello, non significa affatto essere sotto l’effetto di sostanze, abusarne o esserne in qualche modo dipendenti, tantomeno che l’assunzione sia recente.
Dobbiamo, finalmente, superare il paradigma morale, che fa di ogni persona che usa sostanze una persona inaffidabile nella vita e sul lavoro, pericolosa per se e per gli altri. Sono anni che le ricerche scientifiche, le pratiche e le esperienze dei servizi hanno dimostrato che esiste un uso assolutamente controllato, normalizzato, delle sostanze, che i loro effetti non sono legati esclusivamente alla sostanza in se, ma alla situazione oggettiva e soggettiva della persona che ne fa uso, che bisogna distinguere fra uso, misuso ed abuso, e che non necessariamente chi fa uso di una qualche sostanza diventa un tossicodipendente.
Per questo, anche in ambito lavorativo, è indispensabile coniugare la necessaria, imprescindibile tutela della sicurezza di tutti i lavoratori, con il diritto delle persone ad autodeterminarsi nella propria sfera privata: gli screening a tappeto, o randomizzati, non servono ad educare alla salute, a prevenire l’abuso di sostanze ed i rischi a questo legati, ma solo a emarginare e stigmatizzare le persone. Insomma, solo un sottosegretario come Giovanardi poteva sostenere pubblicamente che “non si può consentire che una persona possa anche occasionalmente farsi uno spinello e continuare a svolgere il proprio lavoro”. Sono, fra l’altro, passati anni da quelle affermazioni, ci sono state evidenze scientifiche, risoluzioni degli organismi internazionali. Significa non tener conto della realtà, ragionare per pregiudizi. Eppure, molti continuano ancora a pensarlo.
Vanno promosse le buone pratiche, l’informazione e la formazione sui luoghi di lavoro, piuttosto che pratiche “poliziesche”. Va promosso il benessere lavorativo, la partecipazione attiva dei lavoratori e dei loro rappresentanti alle decisioni che li riguardano.
È quantomeno risibile la parte dell’intesa in Conferenza Stato Regioni del 2017, in cui si dice che l’anamnesi deve escludere possibili patologie attuali o pregresse, correlabili a situazioni di abuso/dipendenza: lascia intendere una ineluttabilità delle ricadute nella dipendenza per chi abbia un trascorso di dipendenza, oltre a non chiarire (e non potrebbe farlo) cosa si intenda per abuso. In più, sostiene che il medico competente deve indagare sulle abitudini di vita personali in relazione al consumo anche saltuario di alcolici e stupefacenti. È del tutto evidente che questa è una interferenza insostenibile nella vita privata dei lavoratori, nel loro diritto ad autodeterminarsi, a scegliere. Il sospetto clinico è un concetto privo di qualsiasi fondamento, e non solo scientifico. In più, i provvedimenti adottabili, in caso di positività al test, anche laddove non si evidenzino comportamenti che possano far presumere stati di alterazione, come, ad esempio, il demansionamento, possono avere conseguenze importanti sulla vita lavorativa delle persone. Sarebbe il tempo di aggiornare l’accordo, rispetto alle evidenze scientifiche, ed alle decisioni politiche: ricordiamo, ad esempio, la recente risoluzione Onu che ha spostato la cannabis dalla tabella 4 alla tabella 1.
Questo non vuol dire che non ci sia la necessità di intervenire laddove un lavoratore manifesti chiari problemi di tossicodipendenza, ma non con misure sanzionatorie, bensì con provvedimenti che, oltre a tutelare la sicurezza della persona e dei colleghi, promuovano salute e benessere lavorativo. Abbiamo necessità di posizioni meno rigide: non si possono fare controlli a tappeto, ma devono essere controlli adeguati, motivati e mirati, effettuati esclusivamente sotto la supervisione del medico competente, che è l’organo preposto alla tutela della privacy sanitaria del dipendente. C’è la necessità che i test rispondano ad indicatori oggettivi, condivisi con la comunità scientifica, riguardo ad affidabilità e sensibilità, e di adottare gli eventuali provvedimenti conseguenti con una gradualità che tenga insieme il diritto alla privacy, la tutela dei diretti interessati, e gli interventi su eventuali situazioni problematiche, che vanno affidati ai servizi pubblici, salvaguardando l’occupazione. C’è bisogno di procedure gestionali contrattate e condivise con le parti sociali aziendali.
Per questo non abbiamo condiviso, e non condividiamo, i test generalizzati, e tutto l’impianto ideologico che sottende l’intesa del 2017, rispetto al quale, già allora, furono sollevate molte obiezioni: fu fin da subito proposto un tavolo per rivedere l’accordo, ma per le proposte emendative, decisamente peggiorative, presentate dalle regioni guidate da giunte di centrodestra nulla fu fatto.
Persino Confindustria era su posizioni meno rigide di quelle!
L’abbiamo detto: consumo di sostanze non vuol dire dipendenza, non significa necessariamente comportamenti devianti.
Allora diventa indispensabile, anche per una Organizzazione Sindacale, mettere in campo azioni che rispondano alle effettive necessità dei lavoratori, alla tutela dei diritti di tutte le persone, e agire buone pratiche: già più di dieci anni fa, per esempio, a Milano si promuovevano azioni che prevedevano la somministrazione di questionari anonimi ai lavoratori, con discussione in assemblea dei risultati di quei test, operatori dei Ser.D portati nei luoghi di lavoro per fare informazione, non certo per individuare le “pecore nere” e, magari, supportare chi ne avesse bisogno.
Fu introdotta la figura del delegato sociale, poi diffusa in diversi territori: un delegato capace di ascoltare e comprendere, di orientare ed indirizzare, laddove ce ne fosse il bisogno, ai servizi del territorio, e di favorire la contrattazione e l’attivazione nei luoghi di lavoro di percorsi di inclusione e promozione della salute, contrastando pregiudizi e stigma. È quello che Bruno Trentin definì, come ci ricordava anche Giuseppe Bortone in un suo articolo, affrontando questi temi, “il sindacato della persona”.
Su questo terreno, quello della promozione dei diritti, della prevenzione di ogni stigma ed emarginazione legati all’uso di sostanze, della promozione di maggiore consapevolezza rispetto ai loro effetti, ci stiamo muovendo, con le associazioni e le organizzazioni con cui lavoriamo da oltre 25 anni e con le quali ogni anno pubblichiamo il Libro Bianco: la sfida è alta, sfatare miti non è semplice, soprattutto quando sono funzionali ad una visione moralizzante dei comportamenti considerati devianti, ad una politica che preferisce reprimere e condannare, che cerca facile consenso agitando temi securitari. Ma tutti insieme sapremo affrontarla.