Tempo di lettura: 7 minuti

A proposito di una riflessione critica su comunità e strutture socio-sanitarie per l’accompagnamento di persone in difficoltà, pubblichiamo due recenti contributi di Susanna Ronconi, entrambi elaborati nell’ambito delle attività di ricerca e formazione del Gruppo di Ricerca NUSA-Nuove Soggettività Adulte-Università di Milano-Bicocca, in collaborazione con la Rivista Pedagogika.

In particolare, gli interventi si riferiscono al progetto  di educazione degli adulti  Transiti nell’età adulta, mirato a indagare significati, processi e vissuti del  cambiamento nel corso della vita (https://nusablog.org/ )

L’articolo Transiti nei luoghi del trattamento socio-sanitario accompagna la presentazione del seminario “Transiti. Nel frattempo”, tenutosi il 23 ottobre 2018, all’Università degli Studi Milano-Bicocca, è stato pubblicato in Pedagogika_XXIII_1-Nel frattempo … transiti nell’età adulta  e si può scaricare in  https://nusablog.org/transitare-nei-luoghi-del-trattamento-delle-fragilita/

Il secondo articolo, Transiti nel sostegno sociale. I rischi di un neodeterminismo autoritario è in Pedagogika_XXIII_3- 2019 e introduce gli interventi di Leopoldo Grosso (Ritrovarsi nel transito) e Stefania Doglioli e Natascia de Matteis (Percorsi di fuoriuscita dalla violenza di genere. Il femminismo come soggetto eccentrico) che entrano nei temi della relazione di aiuto e in particolare del contesto delle comunità.

Sul tema è stato tenuto anche un Seminario presso la Casa della Cultura di Milano, sempre per l’iniziativa di NUSA e Pedagogika, che si può ascoltare qui  https://www.youtube.com/watch?v=6VYLURxnSqY


I dispositivi dell’istituzione totale sono stati analizzati in letteratura come istituzioni assai diverse dal carcere o dall’ospedale, passando per caserme, collegi e conventi: al di là delle differenti missioni e delle diversificate modalità di azione e di intervento, alcuni di tali dispositivi restano strutturali, connaturati, quando in ballo vi sia il governo organizzato e disciplinare – gestito da un potere a questo governo finalizzato –  del quotidiano[1].

Alcuni ambiti della cura – pensiamo qui in particolare  a quelli dedicati a chi  soffre di disturbi psichiatrici e a chi ha problemi di dipendenza da sostanze – a lungo sono stati attraversati da una tensione tra i retaggi della istituzionalizzazione che hanno concorso  a smantellare e le nuove frontiere della de- istituzionalizzazione, oscillando problematicamente tra gli uni e gli altri. Oscillazione dentro cui l’agire educativo ha dovuto via via farsi largo, interagendo con paradigmi (e poteri) tradizionalmente più forti, quello medico, per esempio, ma anche quello morale. Oscillazione ambivalente e tensione che – pur nel cambiamento indubbiamente promosso e praticato nel tempo dagli operatori e dalle singole realtà – non appaiono oggi risolte; anzi, al contrario, esse scontano alcune controtendenze, politico-culturali  e sociali,  restauratrici.

Il movimento di de-istituzionalizzazione degli Anni ‘60-‘70 (gli anni in cui un educatore abilitava le competenze all’empowerment dei singoli e insieme del contesto) lo aveva ben compreso, scegliendo di uscire dalla contraddizione vista come insanabile attraverso l’abbandono delle strutture totali tout-court, con radicalità.  Sono gli anni in cui il movimento  contro i manicomi, con Basaglia,  affermava con chiarezza la loro irriformabilità e l’urgenza di portare e curare il disagio psichiatrico nel territorio, nelle città; e il nascente movimento per la riforma  della normativa sulle dipendenze cercava di far “uscire” chi usava sostanze sia dal codice penale (versus l’uso di droghe considerato come devianza, dunque contro la prospettiva del carcere) sia dalla tassonomia psichiatrica che le avrebbe riportate al vecchio e originario modello trattamentale.

I due ambiti sono assai diversi sotto molti profili e lo sono anche percorsi e contenuti dei movimenti che hanno lavorato al loro cambiamento, però è interessante notare come sia in psichiatria sia nelle dipendenze, un nodo cruciale sia stato cambiare lo sguardo sui soggetti: cominciare a “vederli” nelle loro capacità e potenzialità, con i propri saperi e la propria umanità, più che mettere al centro i loro deficit, di malattia, devianza, pericolosità sociale, incapacitazione. Senza questo diverso sguardo paradigmatico, questo nuovo bilanciamento tra deficit e cittadinanza possibile, potremmo dire, la strada della de-istituzionalizzazione sarebbe stata impraticabile. Così come il lavoro educativo di auto-determinazione, di autonomizzazione  e di empowerment – con i singoli e con i contesti – impensabile.

La strada del territorio e quella dell’empowerment passa attraverso la possibilità di convivere –  con la follia e con le sostanze – a costi personali e sociali accettabili, sia per i singoli che per le collettività, oltre ogni logica duale e oppositiva: “tutto o niente”, o “guarisci” o “sei escluso” (e spacciato). Un altro modo di declinare la “transizione”: non si è assolutamente “sani” o assolutamente  “malati”, si convive con… e si governano il proprio stato e i propri comportamenti.

Nel processo di de-istituzionalizzazione, strutture come le comunità terapeutiche e residenziali, o anche le case alloggio o i gruppi appartamento,  hanno accompagnato la transizione difficile verso la città, verso il territorio, cercando di promuovere con i gesti e le pratiche quel cambiamento di sguardo e di farlo accettare e convivere nei contesti sociali.

Queste strutture hanno portato sulle proprie spalle per un lungo periodo una molteplicità di missioni: a) rassicurare la società, e dunque contenere e controllare, sebbene in maniera più morbida del manicomio o del codice penale; b) assistere, anche sul piano sociale, in un mix di cura e prendersi cura, chi era più fragile e non aveva risorse e reti proprie o le capacità per (ri)costruirsele; c) essere comunità anche sociale, costituendo un contesto relazionale in cui le persone potessero sperimentare e vivere legami sociali, sebbene in qualche modo in vitro.

Dentro queste molteplici mission, il rischio di riprodurre e amplificare una istituzionalizzazione diffusa è sempre stato presente, un dibattito, questo, che ha attraversato e attraversa ogni equipe, ogni supervisione, ogni formazione, dove si tende però a polarizzare le posizioni (comprensibilmente) attorno al nodo mandato di controllo-mandato di cura/prendersi cura, ma che (problematicamente) spesso tende a slittare nell’altro nodo, modelli e dispositivi della struttura-processi di autonomia/ empowerment. Nodo che dipende certo anche dal contesto – nulla avviene al di fuori di un contesto, direbbe Bateson, e nemmeno la forma più chiusa delle comunità sfugge a questo assioma – ma che di certo poggia più sulla consapevolezza e la responsabilità del “qui e ora” che dipende da noi. Dove, più che il sistema del controllo sociale o la politica o la società escludente, noi rischiamo, sotto il profilo educativo,  di essere i nemici di noi stessi.

Rendono al meglio tale nodo cruciale le parole di Cecco Bellosi: «Le comunità rappresentano un punto di ibrido incontro tra etica religiosa e spirito del socialismo reale. L’etica religiosa si esprime nell’assoluto della regola, lo spirito rieducativo nelle frementi ansie di adeguamento alla norma, attraverso percorsi di riabilitazione sociale […] Si svolge un condizionamento operante che, nelle intenzioni, dovrebbe poi proseguire all’esterno, come una sveglia capace di mantenere a lungo la carica»[2].

Certo, sono affermazioni volutamente al limite, vere (ancora!) per i  modelli operativi ed educativi di alcune comunità chiuse e basate sui due paradigmi alleati morale e medico, ma ingiuste per altri modelli. E, tuttavia, Bellosi mette al centro due  questioni comunque cruciali sotto il profilo della nostra domanda, cosa significa educare dentro la transizione che queste strutture propongono: la regola (rispettare la regola) e la norma (riportare alla norma).

Le comunità sono istituzioni nate spesso con finalità esplicite di promozione della persona e della sua autonomia, che tuttavia, scontano a loro volta la stessa aporia del carcere: educare all’autonomia in un contesto normato e disciplinare.

Qui, la differenza può farla il modello operativo che include un determinato paradigma di riferimento, una “cultura” della cura e del prendersi cura, i dispositivi della vita quotidiana e il gioco tra i poteri, le metodologie di lavoro, la qualità relazionale tra gli ospiti e tra loro e gli operatori.

Inoltre, le chance di un’educazione davvero  empowering in queste strutture della transizione dipendono dai gradi di permeabilità al mondo che queste si danno. Quanto, cioè, al di là del discorso retorico, ogni comunità  appartiene – ospiti e operatori – al suo territorio in termini di relazioni quotidiane, legami sociali, presenza nelle dinamiche locali, scambio, partecipazione attiva, cittadinanza agita.

Se il territorio – la cittadinanza attiva e agita – entra nella comunità, le regole di quest’ultima si fanno meno autoreferenziali, smettono di essere un codice separato, parallelo – come nelle realtà più chiuse – esse si restringono e vengono sottese da una logica del buon senso per gestire il quotidiano e non più solo e soltanto interpretate e agite come metro arbitrario per misurare un cambiamento comportamentale in vitro, spesso preso nella trappola paradossale dell’opportunismo di un adeguamento disciplinare.

Si può, e fino a che punto, tenere la regola alla minima intensità affinché la transizione sia una palestra educativa di autonomia? Ovvero, si può “educare” senza far “praticare” ad ospiti e utenti gradi significativi di libertà, responsabilità e signorìa sulla propria vita?

Verso quali approdi?

La norma. Se – per come stiamo assumendo questo ragionamento –  la regola disegna il contesto del viaggio verso l’autodeterminazione e pone interrogativi sulla coerenza o, viceversa, contraddizione tra contesto/approccio e intenti educativi, la norma indica l’approdo, il significato stesso dell’esito della transizione. Restando nel campo delle dipendenze, vi sono comunità che, adottando il paradigma morale, intendono ricondurre alla norma chi ha deviato.

La norma non è solo non usare droghe, ma adottare uno stile di vita, un modello di “cittadino”. Ma anche, tralasciando questo approccio obsoleto, per quanto attiene ai modelli educativi contemporanei, c’è una domanda comunque attuale per tutti: qual è il grado di accordo o disaccordo tra obiettivi ed esiti attesi dagli  ospiti e obiettivi ed esiti attesi dagli operatori? E tra i primi e la mission della struttura,  che è fatta non solo dalla sua equipe ma dal sistema integrato in cui è inserita, dai servizi pubblici invianti, dalla magistratura, dagli accordi dell’accreditamento?

Autonomia, si sa, significa darsi da sé la propria legge. Una transizione che lavori per l’autonomia deve favorire questo, far sì che ognuno sappia scoprire da sé la propria legge e diventi capace, per competenze e risorse,  di vivere in armonia con essa.

La transizione verso l’autonomia non può prescindere dal significato che all’autonomia i soggetti conferiscono, ma, se non si vuole restare alle ormai fruste retoriche su “la persona al centro”, è necessario che questo significato sia accompagnato dal potere che i soggetti possono esercitare sulla sua definizione. Potere che si gioca da subito, da dentro la regola e la norma della comunità. Qui e ora.

Per gli operatori è questione di consapevolezza della posta in gioco, di  posizionamento  e postura nei confronti delle relazioni di cura e di potere che una struttura vede svolgersi quotidianamente, e nell’individuare i gradi di libertà agibili dentro il proprio agire professionale.

Il contesto sociale e politico in cui oggi si agisce è contraddittorio, sotto questo profilo, e ci sfida su diversi fronti.

Da un lato, nel campo dei consumi di droghe, il processo di normalizzazione è avanzato nella società, il fenomeno include sempre più consumi compatibili con  struttura e stili di vita di consumatori socialmente integrati, raramente problematici e che, quando sperimentano problemi o momenti critici,  cercano aiuto e consulenza e non hanno necessità o desiderio di intraprendere percorsi che li sradichino dai loro contest di vita. I percorsi comunitari diventano, via via, minoritari e di nicchia, spesso destinati a persone in stato di marginalità  sociale, o povere, o afflitte da problematicità multiple come carcere o patologie psichiatriche: questo ridisegna la mappa delle comunità stesse (molte realtà del terzo settore da tempo hanno ri-orientato i loro servizi verso la semi-residenzialità,  i centro diurni o il lavoro di outreach e domiciliare) e spinge quelle operative a ripensarsi, spesso con  una crescente  porosità verso il territorio, se l’obiettivo è evitare il rischio di istituzionalizzare i più marginali e, di contro, giocarsi la carta dell’inclusione.

D’altro canto, si assiste a un’ondata – che una analisi lucida ci dice di non breve termine – di incrudelimento delle relazioni sociali e nella politica, a una rinnovata  tendenza ad escludere (quando non a criminalizzare) soggettività “diverse”, gruppi sociali indesiderati, che accompagna e sostiene il processo di smantellamento del welfare e del suo modello di governo della coesione sociale.

Uno slalom difficile, per le transizioni  comunitarie, tra rischio obsolescenza, da un lato,  e dall’altro, occultamento delle vulnerabilità agli occhi di una società che, semplicemente, non  vuole siano visibili. E dunque: possiamo forse rilanciare un movimento per l’educazione come crescita e sviluppo di sé, come empowerment, senza ragionare e posizionarci sul portare avanti un processo di de-istituzionalizzazione, oggi in fase non certo espansiva?

Susanna Ronconi

Note

[1]Erving  Goffman, Asylums, Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Einaudi, Torino, 2010.

[2]Cecco Bellosi, Piccoli gulag. Sentieri e insidie delle comunità terapeutiche, Edizioni Derive e Approdi, Roma, 2004.