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Non c’è stata crisi o catastrofe umanitaria internazionale degli ultimi anni che abbia turbato il Ministro Frattini più della pubblicazione dell’ultimo rapporto di Amnesty International. Eppure non sembrava così imprevedibile, agli occhi profani di chi legga i giornali con qualche assiduità, figuriamoci allo sguardo attento di chi comanda stuoli di feluche intenti a trasmettere notizie e informazioni da ogni parte del mondo sulla credibilità internazionale dell’Italia. La condanna dei respingimenti, delle norme discriminatorie nei confronti degli immigrati, del trattamento delle comunità rom erano già state espresse, a più riprese, finanche da organismi internazionali di cui l’Italia è parte. Perché sorprendersi allora? Ma, si sa, la miglior difesa è l’attacco.
Ne ha fatto le spese, di recente, anche il «Capitan futuro» della Roma calcio, Daniele De Rossi, reo di aver riproposto – a parole sue – una ripetuta raccomandazione degli organismi internazionali per i diritti umani, e cioè che gli operatori di polizia in servizio debbano avere un segno di riconoscimento della loro identità (anche) per inibire le «mele marce» dal commettere abusi sotto la copertura di una divisa e del suo potere. De Rossi per questa inappuntabile dichiarazione è stato messo sotto accusa dall’intero establishment italiano, fino alla veramente censurabile decisione del Ministero dell’Interno di richiamare dal ritiro azzurro i funzionari addetti al coordinamento della sicurezza della Nazionale. Delle due l’una: o erano lì in gita di piacere, e allora è bene che con un pretesto siano stati richiamati; o servivano a qualcosa, e dunque ci dovevano restare, qualunque sia l’opinione di chi deve essere tutelato dal loro lavoro.
Nella retorica dei diritti umani, nulla è più facile dell’applicare loro il pregiudizio etnocentrico secondo cui a noi tocca fissare gli standard che gli altri devono seguire. Con questa motivazione, anni fa un serio e apprezzato magistrato, massimo dirigente dell’Amministrazione penitenziaria del tempo, ebbe modo di commentare un convegno di Antigone sulla tortura, sottolineando che si trattava di un argomento certo importante, ma che non ci riguardava, non essendo la tortura prevista dal nostro ordinamento (sic!). Insomma: noi scriviamo i diritti e gli altri li violano. Facile, no? E invece non è così: capita che standard e diritti vengano condivisi, e capita – soprattutto – che i diritti umani vengano violati anche qui, in casa nostra, sul posto di lavoro, in un ospedale pubblico o nelle segrete di un tribunale. Chi voglia saperne di più, e fuggire dalla pelosa indignazione del Ministro Frattini, ha anche quest’anno la possibilità di documentarsi esaurientemente grazie al Rapporto sui diritti globali (Ediesse, 1310 pp., 30 euro ) curato dalla Associazione SocietàINformazione con il sostegno della Cgil e di molte associazioni di settore, dal Gruppo Abele ad Antigone, da Legambiente all’Arci.
Il Rapporto sui diritti globali ha – tra gli altri meriti – quello di leggere le vicende italiane in una prospettiva planetaria, essendo appunto i diritti civili e sociali di cui si interessa «diritti globali», che non reggono gli ambiti confinari degli Stati, dei continenti e degli stadi di sviluppo. Quanto garanzie e tutele, precarizzazione e prevaricazioni dei diritti abbiano natura globale ce l’ha mostrato più di ogni altra contingenza la crisi finanziaria ed economica apertasi nell’autunno del 2008 e, come giustamente ammoniva Guglielmo Epifani nella sua prefazione scritta prima del precipitare della crisi greca, tutt’altro che risolta. Figura chiave di questa dimensione «globale» (della crisi, dei diritti e del loro misconoscimento) è la condizione dei migranti, testimoniata crudamente e crudelmente in quello che il coordinatore del Rapporto, Sergio Segio, chiama «il safari umano di Rosarno»: mondi che si incontrano e si scontrano, diritti civili e sociali, «habeas corpus» e dignità del lavoro, che stanno insieme o vengono negati entrambi.
Non piace al Ministro Frattini questa immagine dell’Italia? Comprensibile, ma non se la caverà allestendo un piccolo Truman Show a uso e consumo di palati troppo facili da soddisfare.