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Gli indirizzi mondiali di lotta al consumo, alla diffusione e alla coltivazione di droghe rappresentano un caso paradigmatico di una politica con norme e strumenti istituzionali effettivamente globali, nate da un approccio ideologico di stampo tipicamente americano. La “war on drugs” è esemplare per la sua storia e per la vastità e pervasività degli effetti che ha avuto, che si sia trattato di perseguire la lotta alle colture ed alle culture nei paesi del terzo mondo o quella al consumo nei paesi ricchi: al grido di “faremo sparire quella pianta dalla faccia della terra” (canapa, papavero o coca) ovunque è stata una guerra soprattutto contro i poveri e gli ecosistemi.
La “war on drugs” ha una sua data di nascita, che coincide con l’approvazione della Convenzione Unica sulle sostanze stupefacenti dell’Onu del 1961. In quell’occasione sono state proibite tutte le droghe che tradizionalmente, a differenza di alcol, tabacco e caffè, non appartengono alla cultura occidentale (oppio, cannabis, coca: al riguardo vedi G.Arnao, “Fuoriluogo” novembre 2000). La decisa scelta proibizionista dell’Onu è un caso da manuale dell’americanizzazione delle politiche internazionali. Gli Stati Uniti hanno costruito l’ideologia del proibizionismo, falsificando l’evidenza scientifica e investendo miliardi in campagne di disinformazione e propaganda, utilizzando quello che il politologo Joseph Nye ha definito il “soft power”, caratteristica tipica del dominio americano, basato in egual misura sulle forme tradizionali di potere (supremazia economica e militare, “hard power”) e quelle più innovative della costruzione del consenso verso il proprio universo di valori.
Allo stesso tempo abbiamo assistito all’edificazione di un sistema di trattati internazionali di lotta alla droga che negli anni si è ramificato ed irrigidito, e alla costituzione di una grossa e grassa agenzia internazionale come l’UNDCP, l’istituzione delle Nazioni Unite oggi guidata, fra mille polemiche e inchieste interne, da Pino Arlacchi. Gli Stati Uniti hanno comunque agito unilateralmente quando ne hanno avuto bisogno, inventando il sistema delle “certificazioni” annuali per i paesi produttori di droga: chi non la riceve è costretto a subire pesanti sanzioni economiche e rischia l’isolamento internazionale. Un mezzo efficace per definire amici e nemici nel terzo mondo e influenzare le politiche di questi paesi. “La droga sopperisce infatti alle lacune provocate dall’indebolimento delle alleanze militari e diplomatiche dei due blocchi per trasformarsi in una forza nemica virtuale a seconda delle necessità dei leader del mondo occidentale” (Alain Labrousse, Trieste 1996).
E’ chiaro il carattere strumentale teso al controllo economico e politico di vaste zone del pianeta, in particolare il Sud America e il Sud-est asiatico. Nel ’89 la volontà di proteggere gli interessi statunitensi nel canale di Panama portò all’arresto di Noriega, che venne perseguito come pericoloso trafficante internazionale. Nei primi anni ’80 in Perù, sotto il governo Belaunde e in seguito alle forti pressioni degli Stati Uniti, vennero create le Unità Mobili di Pattuglia Rurale, con lo scopo di reprimere i coltivatori di coca, ma più in generale di garantire il controllo militare del territorio. Oggi assistiamo all’intervento degli Stati Uniti in Colombia con cui si cerca di ridefinire la presenza strategica militare degli Usa nel continente ed eliminare l’anomalia della presenza della guerriglia delle Farc (in prospettiva c’è il progetto di liberalizzazione commerciale tra Nord e Sud America). Con la guerra ai narcos si è giustificata la costruzione della nuova base militare americana di Manta in Ecuador, ufficialmente per monitorarne i movimenti. Non solo: una delle tecniche più usate in Colombia per combattere le colture di coca sono i “bombardamenti” di pesticidi, che distruggono in realtà ogni tipo di pianta, colpendo in modo drammatico i contadini di queste zone. L’ennesimo attentato alla Biodiversità, una vera guerra contro i poveri.
La funzione geopolitica della “War on Drugs” nelle relazioni internazionali (controllo e influenza su alcune zone che rivestono un interesse specifico per gli Usa) si traduce in una funzione di controllo sociale nelle politiche interne dei paesi occidentali.
Di nuovo il punto di riferimento non possono che essere gli Stati Uniti dove gli arresti per reati connessi all’uso o alla vendita di sostanze stupefacenti ha avuto un incremento del 364% tra il 1980 e il 1992. Ma il dato più inquietante è evidenziato dall’aumento degli arresti tra la popolazione nera e ispanica, assolutamente sproporzionato rispetto a quelli riscontrati tra la maggioranza bianca, in un rapporto di quasi quattro a uno. Non solo: le pene per il possesso di crack (sostanza molto più diffusa tra le minoranze che fra i bianchi, più economica ed accessibile per gli strati più poveri della popolazione) sono molto più alte di quelle riscontrate per il possesso di cocaina a parità di quantità sequestrata. Ovviamente tra i consumatori di cocaina troviamo una percentuale molto più alta di bianchi benestanti. Non a caso, il reverendo nero Edwin Sanders ha sostenuto che la lotta contro la “war on drugs” deve essere una battaglia portata avanti proprio dalla comunità nera (per un resoconto sulle posizioni degli antiproibizionisti americani vedi Cohen su “Fuoriluogo” giugno 2001).
Lo stesso accade in Europa, dove moltissimi sono gli immigrati incarcerati per questo tipo di reati e dove viene alimentata una campagna di stampa molto forte per dimostrare l’equivalenza tra immigrato e spacciatore (e in più generale criminale, come mostra la proposta di legge della Lega). A questa diffusa percezione sociale si accompagna la desolante mancanza di analisi della sinistra europea sulle cause della marginalità, che spesso si trovano proprio nell’impianto punitivo delle leggi (che si parli di immigrazione come di droghe). Si accetta cioè che lo strumento penale svolga una funzione di controllo e regolazione sociale. Anche in questo caso una si tratta di una guerra contro i poveri.
A darci conforto però è la diffusione sempre più ampia di movimenti antiproibizionisti che posseggono un approccio realmente internazionale, proprio perché si percepisce il radicamento e la complessità dei disastri prodotti dalle politiche attuali: disastri ambientali, sociali, economici e politici. Per questo proprio a Genova, in occasione della Conferenza Nazionale sulle Droghe del novembre scorso, il movimento antiproibizionista è riuscito a far sentire la propria voce raccogliendo consenso fra gli operatori e fra i politici. Per questo ci sentiamo vicini a chi contesta il G8: Forum Droghe aderisce al Genoa Social Forum perché da anni combatte insieme al movimento un sistema mondializzato come quello del proibizionismo.