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Sono convinto che la questione penitenziaria si collochi in un punto strategico e di forte crisi di questo nostro mondo dopo Cristo, come dice Marchionne, con una espressione che temo non voglia dire, come è d’uso, dopo la apparizione di Cristo, ma dopo la sua sparizione. Perché un punto strategico? Perché vi si incrociano due aspetti: da un lato, il trasferimento delle risorse economiche dalle politiche sociali – gli ultimi scampoli del welfare – alle politiche di contrasto di polizia e penale contro le crisi urbane (dallo stato sociale allo stato penale, come si dice); e dall’altro lato, la scoperta che tali politiche calamitano consenso, anche se del tutto inefficaci sul piano delle soluzioni delle crisi che si propaganda di affrontare. Meno stato e più galera. Il credo in cui tutti concordano, destra e sinistra, è: “La sicurezza è un diritto, l’insicurezza è una ingiustizia sociale”. E questo credo è accettato nonostante sia accertato che queste politiche colpiscono proprio le fasce più deboli della popolazione e quando è indubbio che il diritto alla sicurezza non riguarda la sicurezza sociale (dalla culla alla tomba, slogan ampiamente negato dalla demolizione del Welfare) e il recupero delle situazioni sociali critiche. L’adempimento di quel diritto è soddisfatto dall’arresto di più persone e dal placare, più che la paura, il cattivo umore della gente.
La mia conclusione è che il sovraffollamento è ormai strutturale e che, per questo, non c’è modo di interromperlo. La volontà è questa (con le leggi riempi carceri, con l’inerzia a intervenire successivamente, maledicendo il condono e promuovendo, dopo lo stesso, un ritmo di ri-carcerazione più veloce di prima: aumento di 31.000 detenuti in 4 anni: il condono fu preceduto da un aumento di 10.000 detenuti in un decennio) e occorrerebbe una volontà opposta, che non si vede apparire all’orizzonte.
In questa rubrica, sul Manifesto, sono intervenuti recentemente Franco Corleone (25/8), Mauro Palma (15/9) e Stefano Anastasia (22/9). Pongono problemi seri su un possibile ripensamento del carcere relativamente alla sua organizzazione interna e, in particolare, ai problemi del personale. Ci sono prospettive in questo senso? La risposta che mi viene immediata è no, perché è chiaro che questo governo rifiuta il dettato costituzionale (vedi le leggi Bossi-Fini, ex-Cirielli, Fini-Giovanardi) e pensa ad un carcere di sola contenzione, che rifiuta qualunque funzione riabilitativa, come dimostra la precisa scelta di carceri sempre più grandi, contro l’art. 5 dell’O.P. (vedi il fantomatico piano edilizio del DAP), che saranno sempre più affollati e nei quali parlare di  trattamento individualizzato – art. 13 O.P. – è solo una “sfottitura”). Questa la politica dei responsabili attuali: nessuno spazio per i ripensamenti di Corleone, Palma e Anastasia. Ma, nel ripensare i ripensamenti, si può notare che gli stessi parlano di un carcere più ragionevole che, in qualche misura, può alleggerire le responsabilità dello Stato, cosa gradita oggi. La proposta di creare carceri con maggiore responsabilizzazione dei detenuti e minore impiego di personale viene incontro alle minori spese auspicate. E la presa d’atto che molte attività vengono via via passate ad altre amministrazioni, dalla sanità alla scuola, a tutte le iniziative riabilitative, nelle quali la Amministrazione sta arrivando a non mettere più un soldo e l’idea conseguente di spostare il personale di servizio sociale dallo Stato alle amministrazioni locali: anche qui risparmi e meno responsabilità per lo Stato. E, per la Polizia penitenziaria, è possibile un impiego più razionale e meno dispersivo, impegnata com’è anche in funzioni ben diverse da quelle che le sono proprie: un’altra possibilità di economie di personale e di risorse. Una conclusione molto sommaria, che sintetizza le varie proposte, può essere questa: responsabilizzare i detenuti per deresponsabilizzare lo Stato e i suoi rappresentanti. E’ ben vero che ne risulterebbero un carcere e una politica penitenziaria migliori, ma credo che si imporrebbe l’opposizione degli “spiriti della prigione”, che vogliono con fermezza la prigione e la vogliono così com’è, piena, incapace di pensarsi e vedersi, utile solo per propaganda, del tutto inutile e indifferente per gli uomini che ci sono chiusi. Il carcere dopo Cristo, appunto.