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Di Elena Coccia tutti riconoscono la capacità di andare fino in fondo, in quelle battaglie a fianco degli ultimi che molti avvocati rifiutano, o perché considerate “perse” o perché ritenute “a perdere”, cioè senza guadagno.

Eppure nella sua carriera trentennale da penalista, a difesa delle donne, ma anche dei migranti, dei senza voce, di vittorie ne ha portate a casa tante. Così il carcere l’avvocato Coccia lo conosce perché sempre legato a doppio filo con quel tribunale dove invece ci si batte per un idea di giustizia spesso tradita.

Cosa succede oggi negli istituti di pena? È aumentata la violenza o è sempre stato così?

Diciamo che negli anni 70 c’era una maggiore attenzione, perché forse nella popolazione carceraria c’erano anche prigionieri politici. Oggi il carcere è solo una discarica sociale dove risiedono in maggioranza due tipologie di persone, gli stranieri e i tossicodipendenti. E bisogna essere chiari e sinceri su una questione le carceri italiane non si riempiono perché gli individui commettono più reati, le percentuali dei crimini commessi nel nostro paese sono in netta discesa. Oggi le prigioni si riempiono perché sono stati inventati dei reati che prima non erano considerati tali, oppure si ritenevano necessarie solo misure alternative. La nuova politica della sicurezza trasforma così gli istituti di pena in grandi contenitori dove scaricare gli ultimi del mondo, i poveri, quelli insomma che non possono ricorrere a buoni avvocati e ottenere così modi alternativi per scontare le pena. Il sovraffollamento poi genera violenza e frustrazione anche nelle guardie carcerarie.

Così la soluzione sembra essere sempre quella di costruire nuove carceri…
Una grandissima presa in giro, il problema è la prevenzione, è quello che c’è fuori, o meglio che non c’è. L’idea è quella di penalizzare qualsiasi comportamento e non investire sull’aiuto esterno. Faccio un esempio proprio con i tossicodipendenti, perché l’Italia non ha mai voluto affrontare questo problema di grande rilievo sociale. Le famiglie sono troppo spesso lasciate sole e senza luoghi per curare i propri congiunti, così sono costrette a vederli morire piano piano o a farli arrestare volontariamente perché esauste. Ricordo che dall’inizio dell’anno nei nostri istituti di pena si sono suicidate 20 persone, un dato che parla da solo sulla situazione penitenziaria. Mi permetto di citare il presidente di Antigone in Campania Dario Stefano Dell’Aquila: “In Italia la pena di morte non c’è, ma nelle carceri c’è.

Forse perché sono luoghi separati, coni d’ombra.
Ultimamente ho lavorato molto con l’associazione Protos che aiuta i figli dei detenuti. È una realtà agghiacciante perché il carcere non lo subisce solo chi è dentro, ma l’intera famiglia. In Campania nei giorni di visita si assiste a delle condizioni da terzo mondo. Basta fare un giro per vedere bambini ammassati per ore nei cortili in attesa dell’incontro con il familiare detenuto, pannolini sporchi ovunque per mancanza di cestini, fumo, aria asfissiante quando fa caldo, con neonati inzuppati quando piove. Nel frattempo all’interno i detenuti si riempiono di aspettative per la visita che rappresenta l’unico contatto con il mondo, un’attesa di ore che li carica di aggressività, e anche il colloquio diventa un momento drammatico.

Dopo il caso Cucchi Antigone con il manifesto ha lanciato una petizione per aprire le carceri alla stampa.
La trasparenza sarebbe uno dei modi migliori per prevenire gli episodi di violenza. Quando c’era una sinistra in parlamento almeno si poteva pensare di fare qualche visita a sorpresa, come forma di controllo in un paese democratico. Oggi non c’è nessuno che entra nelle carceri a meno che non ci sia un detenuto eccellente. La separazione degli istituti di pena dal resto del mondo è una condizione pericolosa e degenerativa. In questa maniera può avvenire di tutto anche perché vige un clima di omertà, chi sta dentro ha paura di denunciare quello che avviene e lo stesso vale per i familiari che temono ritorsioni per i propri cari. Così denunce come quella del ragazzo malato di Aids e picchiato nel carcere di Secondigliano sono eclatanti e vanno prese in seria considerazione, sostenute, non solo per la gravità del singolo caso, ma come esercizio di democrazia per tutti.