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Il 5 dicembre la Corte Costituzionale discuterà del ricorso avanzato dal Tribunale di Sorveglianza di Spoleto in merito alla sessualità e all’affettività attualmente negate ai detenuti e alle detenute. La questione è di tale importanza da spingere alcune associazioni (la Società della ragione, il Centro Riforma dello Stato, l’Associazione Luca Coscioni) a promuovere un pubblico appello alla Corte dal titolo Il corpo recluso e il diritto all’intimità. L’appello, redatto dal costituzionalista Andrea Pugiotto, ha come primi firmatari un centinaio di giuristi e di altre personalità e sta raccogliendo altre adesioni sui siti delle associazioni. Si spera che la mobilitazione cresca in vista dell’udienza della Corte e che molte altre firme si aggiungano (www.societadellaragione.it/campagne/affettivita).

La questione della “mutilazione” sessuale e affettiva del recluso/a è stata finora sottovalutata, nonostante colpisca l’individuo/a in una dimensione fondamentale della personalità adulta. La sessualità negata si trasforma così in sofferenza aggiuntiva rispetto a quanto costituzionalmente previsto nella pena: è una delle argomentazioni cardine del tribunale di sorveglianza di Spoleto nel ricorso alla Consulta, ma ce ne sono altre altrettanto persuasive citate nell’appello: il divieto di sessualità in carcere “logora i rapporti di coppia” e “pregiudica “la possibilità di accedere alla genitorialità” ove desiderata. L’ansia e il timore per l’allentamento dei rapporti con la partner o col partner sono sentimenti comuni alle persone detenute, come è emerso da una interessante ricerca condotta negli istituti di Cassino e Frosinone che ha dato voce alle persone dietro le sbarre. “E’ una punizione che va contro la natura. Vorrei un altro figlio”, dice un detenuto. Un altro si esprime con un’immagine che parla da sé del sentimento di perdita: “Così siamo in una bolla”.

C’è da ragionare su come si è venuto configurando il divieto. La proibizione della sessualità non è scritta come tale in una norma- tra l’altro contrasterebbe col mantenimento della relazione col partner, parte essenziale della finalità risocializzante della pena. Eppure, è un solido dispositivo operante. Ed è rimasto tale anche dopo il pronunciamento della Consulta (301/2012), che ha riconosciuto come “esigenza reale” quella di “permettere alle persone sottoposte a restrizioni della libertà personale di continuare ad avere relazioni affettive intime, anche a carattere sessuale”. Da qui l’invito della Consulta al legislatore a provvedere. Anche il Comitato Nazionale di Bioetica, nel 2013, in un parere dedicato alla “Salute dentro le mura”, raccomandava “la possibilità di godere di intimità negli incontri fra detenuti e coniugi/partner in modo da salvaguardare l’esercizio della affettività e della sessualità”, in nome del “principio etico della centralità della persona”. La sollecitazione della Consulta al legislatore è rimasta lettera morta per ben dieci anni, perfino di fronte alle sollecitazioni “dal basso” delle iniziative legislative presentate alle Camere dal Consiglio Regionale della Toscana e del Lazio. Dietro l’ostinata inerzia del legislatore si intravede un conflitto di fondo riguardo il carcere, fra il principio secondo cui la pena non deve privare la persona dei diritti altri dalla libertà di movimento, e la condizione di segregazione dei corpi “dentro le mura”. La segregazione ha in sé il germe della mortificazione del corpi, dunque quest’ultima si presenta come una “naturale” conseguenza della detenzione. In questa luce, la battaglia contro l’intimità proibita in carcere acquista il valore emblematico di difesa di tutti di diritti delle persone private della libertà. Facciamo nostre le parole dell’appello: la privazione della sessualità è “una primitiva sanzione corporale, contraria al disegno costituzionale della pena”. Non più tollerabile in una società civile.