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Bernardo Parrella

Bernardo Parrella

Dal nostro corrispondente dagli USA – Tutto tace a livello ufficiale dopo la decisione del Procuratore Generale, Jeff Sessions, di rescindere le linee-guida in vigore che di fatto garantivano il via libera alla depenalizzazione della cannabis nei singoli Stati Usa. Grazie al Cole Memorandum voluto da Obama nel 2013, alle autorità statali veniva riconosciuta piena autonomia anche in quest’ambito, come già avviene per alcol, armi, salute e molto altro, senza dover temere intrusioni governative in base alle correnti norme federali, che includono tuttora la marijuana nella Tabella I (nessun valore terapeutico, forte rischio d’abuso, pene draconiane per l’uso ricreativo). Ma quest’inatteso dietro-front si pone come una mina vagante, almeno a livello teorico, ai danni del variegato movimento che dal 1996 ha aperto le porte alla legalizzazione della cannabis prima a livello terapeutico (in 30 Stati) e poi anche ricreativo (in otto Stati).

On ogni caso, passato il botto iniziale di 10 giorni fa, la decisione di Sessions è subito scomparsa da titoli e notiziari dell’informazione mainstream, impegnata com’è a tener dietro all’inarrestabile cacofonia prodotta dalla Casa Bianca. L’impressione generale, confermata anche dalle chiacchiere di strada, è che trattasi di tanto fumo e poco arrosto. Nettamente scemati anche i commentari online e le discussioni sui social media, pur se il variegato il fronte pro-legalizzazione non è rimasto certo a guardare.

A livello politico, dopo le diffuse critiche bipartisan rilasciate a caldo, le autorità del Massachusetts, dove il primo luglio partirà la vendita di marijuana ricreativa seguita all’approvazione nel novembre 2016 dell’apposito referendum, hanno confermato che andranno avanti in questa direzione e non offriranno alcuna assistenza alla polizia federale nel caso decidesse d’intervenire in loco. Analogo il quadro in California, dove le prime rivendite al minuto hanno aperto i battenti con il nuovo anno e molte altre stanno completando le procedure burocratiche (a Los Angeles ci vorrà ancora qualche settimana). Come ha spiegato il Procuratore Generale, Xavier Becerra: «In California, abbiamo deciso che è meglio regolamentare l’uso della cannabis, anziché criminalizzarlo. Intendiamo applicare vigorosamente le leggi statali e tutelare gli interessi dello Stato».

Ferma anche la posizione del Colorado, a maggioranza repubblicana. Il Senatore Cory Gardner ha minacciato di bloccare tutte le nomine proposte dal Ministero di Giustizia finché Sessions non tornerà su suoi passi e manterrà la promessa di non interferire con la legalizzazione già attivata in loco. E il Procuratore Generale, Cynthia Coffman, si è detta convinta che nulla cambierà nell’attuale scenario statale e anzi «le autorità locali si opporranno alle possibili intrusioni dei procuratori federali». D’altronde le spaccature tra gli esponenti repubblicani e la cerchia governativa di Washington non sono certo una novità, ma resta da vedere se avranno effettive conseguenze sul campo.

Dal canto loro, attivisti e industria segnalano l’incongruenza di questa uscita di Session, che minaccia di tagliare subito le gambe a una nascente industria che da qui a 10 anni potrebbe generare fino a 132 miliardi di dollari in tasse e oltre un milione di nuovi posti lavoro – qualora la cannabis venisse legalizzata nell’intero Paese. Lo rivela una recente indagine curata da New Frontier Data, agenzia dati focalizzata sull’economia della marijuana. E secondo lo studio, pur se circa il 25% del mercato complessivo rimarrà illegale, questo tenderà man mano a ridursi qualora il settore legale continuerà a offrire prezzi e tasse relativamente contenuti.

Ancora, una tempestiva analisi di Vice.com sottolinea l’ulteriore contraddizione della potenziale stretta federale pur a fronte delle diffuse indicazioni sull’apporto della cannabis nel ridurre l’epidemia da oppioidi che va attualmente imperversando in tutti gli Usa. Nell’autunno scorso Donald Trump l’ha ufficialmente dichiarata un’emergenza sanitaria nazionale, dopo la notizia che l’epidemia sta provocando ogni tre settimane lo stesso numero di morti dell’11 settembre 2001. Un contesto in cui la ricerca scientifica degli ultimi anni ha confermato l’efficacia del ricorso alla cannabis. Nelle parole del dr. David Nathan, psichiatra e fondatore di Doctors for Cannabis Regulation: «Negli Stati dove vige la marijuana terapeutica le overdosi fatali sono calate fino al 25%, e pur se ciò non ne dimostra la causa diretta, sicuramente evidenzia una correlazione di cui dobbiamo prendere atto».

Da segnalare infine un editoriale in contro-tendenza apparso nei giorni scorsi sul Washington Post, secondo il quale la mossa di Sessions in definitiva sarebbe una spinta per la futura legalizzazione sul territorio nazionale. L’articolo mette in chiaro la primaria conseguenza politica di tale mossa: una pessima notizia per i Repubblicani, già in acque agitate in vista delle elezioni del prossimo novembre per il parziale rinnovo del Congresso. Anziché anacronistiche manovre repressive, gli elettori sono decisamente orientati verso la depenalizzazione, come hanno confermato vari sondaggi degli ultimi anni, incluso un poll della Gallup dello scorso ottobre secondo il quale il 64% degli americani appoggia la completa legalizzazione della marijuana, compreso il 51% di Repubblicani. L’effetto-boomerang della decisione dell’Amministrazione Trump potrebbe così dar vita a un’interessante dinamica, con la vittoria dei Democratici e soprattutto di quelli che sostengono apertamente la fine del proibizionismo, e ciò vale anche per la corsa presidenziale del 2020. Sarà davvero così? Impossibile dirlo ora, ma la conclusione dell’editoriale merita attenzione: «Può anche darsi che Sessions riesca a raggiungere il suo obiettivo immediato. Ma alla fine è probabile che abbia offerto una grossa mano al movimento per la legalizzazione».