(Redattore Sociale, 16 aprile 2007) Giovani, con figli a carico e con problemi lavorativi. È l’identikit di soggetti gravemente emarginati quello che emerge da una ricerca condotta nelle carceri milanesi. Straniera molto più giovani rispetto agli italiani.
Giovane, poco istruito e disoccupato. È il profilo di un soggetto gravemente emarginato, quello delle persone che corrono i maggiori rischi di finire in carcere, emerso dalla ricerca “Carcere e povertà”, condotta da Caritas Ambrosiana su 1.306 questionari compilati tra febbraio e luglio 2006 da altrettanti detenuti delle carceri milanesi di Opera, San Vittore e Bollate. Il lavoro è stato presentato oggi a Milano in occasione del convegno “L’estremo rimedio. Giustizia penale e giustizia sociale oltre l’indulto”. Il lavoro è stato realizzato in parte grazie al contributo economico del Comune di Milano e in parte con fondi propri della Fondazione Caritas Ambrosiana, nell’ambito del progetto “Un tetto per tutti: alternative al cielo a scacchi”, finanziato dalla Regione Lombardia, dalla Fondazione Cariplo e dal Comune di Milano. Le attività e gli strumenti di indagine sono stati autorizzati dal Provveditorato Regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Lombardia.
“Il profilo che emerge dalla ricerca è quello di emarginati gravi, che non erano mai entrati in contatto con i Servizi sociali – dice Andrea Molteni, ricercatore di Caritas Ambrosiana -. La ricerca si concentra sulla situazione precedente all’indulto, evidenziando situazioni di fragilità in particolare per gli stranieri, che stanno in carcere più degli altri anche quando non hanno pene gravi, e per le donne con figli, magari separate. Bisogna fare in modo che le reti sociali facciano prevenzione”.
Gioventù prigioniera – Il 57,3% di coloro che hanno compilato il questionario ha meno di quarant’anni, quasi il 40% (39,6%) ne ha meno di trentacinque e poco meno di un quarto dei detenuti (23,0% dei rispondenti) non ha ancora raggiunto i trent’anni di età. L’indagine ha quindi confermato il dato ampiamente noto sulla giovane età delle persone detenute ed ha semmai sovrastimato la quota di popolazione detenuta che ha superato i cinquanta anni di età, che comunque resta una netta minoranza nel campione di intervistati. In particolare la popolazione detenuta straniera si conferma molto più giovane rispetto a quella italiana: il 30% circa (29,3%) dei detenuti di nazionalità italiana che hanno compilato il questionario ha meno di trentacinque anni mentre tra i detenuti stranieri i giovani sono, in percentuale, quasi il doppio (58,2%). Non solo: ben il 37,5% degli stranieri ha meno di trent’anni contro il 14,9% degli italiani; il 14,4% degli stranieri ha meno di venticinque anni, i pari età tra gli italiani sono solo il 5,0% e addirittura si registra un 4,0% di detenuti stranieri che non ha neanche raggiunto i ventuno anni, mentre tra gli italiani la quota di giovani adulti è dello 0,9%.
Uno su due ha figli – Quasi la metà dei detenuti milanesi che hanno partecipato all’indagine vive una relazione di coppia: il 28,5% dichiara di essere sposato e il 18,4% convivente; il 15,6% risulta invece separato o divorziato e il 34,4% è celibe o nubile. I detenuti che hanno dichiarato di avere figli sono stati quindi complessivamente 721, pari al 57,6% dei rispondenti. Nella maggioranza dei casi i figli sono uno o due (41,6% dei rispondenti, 73,2% di chi ha figli); meno frequenti, anche se non rari, i casi di genitori detenuti con famiglie numerose. Dalle risposte raccolte presso gli istituti milanesi è possibile calcolare che i figli delle persone che hanno risposto al questionario sono almeno 1.431.
Tra le persone che hanno risposto al questionario, la percentuale delle madri risulta significativamente più numerosa di quella dei padri. Infatti tra le 721 persone detenute con figli, le donne sono 49, pari al 63,6% delle donne che hanno risposto a questa domanda.
Italiani più recidivi – Il fenomeno del reingresso in carcere interessa in misura minore i detenuti stranieri: tra la popolazione straniera reclusa prevalgono infatti coloro che si trovavano in carcere per la prima volta (55,0%), mentre rispetto agli italiani la quota di stranieri che aveva già nel proprio passato diverse esperienze di detenzione e` quasi della metà (22,4% contro 43,6%). Tra gli stranieri si riscontrano, oltre alla minore quota di detenuti già giudicati, anche una durata media della pena inflitta – e conseguentemente della pena residua – inferiore a quella registrata tra i detenuti italiani.
Stranieri più istruiti – Un quarto delle persone detenute nelle carceri milanesi che hanno risposto alla specifica domanda prevista dal questionario non ha terminato la scuola dell’obbligo e non ha alcun titolo di studio (9,4%), oppure ha la sola licenza elementare (15,9%); il 43,3% dei rispondenti ha assolto appena l’obbligo scolastico, conseguendo la licenza media inferiore. Il totale di chi ha raggiunto al massimo la licenza media inferiore sfiora quindi il 70% dei detenuti milanesi (68,6%), mentre meno di un terzo di loro (31,3%) possiede un titolo di istruzione superiore, che nel 13,6% dei casi consiste in un attestato di qualifica professionale e nel 14,0% in un diploma di scuola media superiore. Tra le persone detenute di origine straniera che hanno risposto al questionario si registra più frequentemente che tra gli italiani un livello di istruzione medio-alto: un quinto dei detenuti stranieri (19,9% contro il 10,9% degli italiani) ha infatti dichiarato di essere diplomato.
Uno su due lavorava – Soltanto la metà (51,0%) di chi ha risposto al questionario aveva al momento dell’incarcerazione un lavoro regolare; il 29,8% ha avuto in precedenza esperienze di lavoro regolare ma al momento dell’arresto non aveva un lavoro, mentre il 19,2% non ha mai avuto un lavoro regolare nella propria vita. Chi ha dichiarato che aveva un lavoro regolare al momento dell’arresto, nel 14,1% dei casi definisce come ‘regolarè un’occupazione ‘in nero’ e soltanto nel 72,1% dei casi risultava avere un’occupazione effettivamente in regola dal punto di vista giuslavoristico. In generale gli stranieri detenuti nelle carceri milanesi presentano situazioni di forte precarietà lavorativa con frequenza maggiore degli italiani: al momento dell’arresto erano più spesso disoccupati rispetto agli italiani (24,2% contro 20,0%), e molto più spesso degli italiani lavoravano “in nero” (39,9% degli stranieri e 22,5% degli italiani).
Senza dimora? – Al momento dell’arresto meno di un terzo dei detenuti milanesi (31,2%) abitava in una casa di sua proprietà o di proprietà della famiglia; il 10,6% viveva in un alloggio di edilizia popolare regolarmente assegnato, un ulteriore 25,1% aveva un regolare contratto di affitto. Complessivamente dunque il 67% delle persone che hanno risposto al questionario viveva in una condizione abitativa regolare; l’11,5% dei detenuti abitava invece in una casa in affitto senza un regolare contratto, il 2,8% occupava abusivamente un alloggio e l’8,8% era ospite di parenti, amici o conoscenti. Una percentuale cospicua – il 4,7% dei rispondenti – ha dichiarato che al momento dell’arresto non aveva una dimora fissa.
Qualcuno abitava in centri di accoglienza o in alloggi di fortuna, in hotel o pensione, in camere in affitto, in campi nomadi, in case abbandonate, in auto: si tratta di situazioni individuali, statisticamente poco significative, ma che contribuiscono a delineare una quota rilevante di persone che non avevano un’abitazione regolare ne´ adeguata. Solo il 55,2%) pensa che, al momento della scarcerazione, potrà rientrare nello stesso alloggio che occupava prima di entrare in carcere; ben il 27,7% dei rispondenti non sa dove potrà andare ad abitare mentre il restante 17,2% dichiara di avere già in mente una possibile alternativa. Per le detenute questo dato di incertezza cresce: più di un terzo delle donne che hanno risposto al questionario (37,0%, contro il 27,1% dei maschi) non sa dove andrà a vivere quando uscirà dal carcere.
Giustizia: sono sempre pochi i recidivi fra i detenuti indultati
(Redattore Sociale, 16 aprile 2007) Al 31 marzo sono l’11,3% di quelli che ne hanno beneficiato, solo 0,2% in più rispetto a febbraio. Don Davanzo (Caritas Ambrosiana): “Si dimostra che le pene alternative sono valide”.
Continuano ad essere pochi i detenuti usciti dal carcere con l’indulto e che commettono nuovi reati: al 31 marzo sono pari all’11,3% di quelli che ne hanno beneficiato, solo 0,2% in più rispetto al dato diffuso in febbraio dal Ministero della Giustizia relativo al periodo agosto 2006-gennaio 2007 (vedi lanci del 19/02/2007, ndr).
Sono molti di meno rispetto alla media “normale” del 68% di coloro che escono dal carcere dopo aver scontato tutta la pena prevista. “Non è vero dunque che l’indulto ha provocato un aumento dei reati – afferma Luigi Manconi, sottosegretario alla Giustizia -. Si è trattato invece di un provvedimento che ha migliorato le condizioni di vita all’interno delle carceri”. Nel primo trimestre di quest’anno i suicidi sono stati solo 2, contro i 15 dello stesso periodo del 2006. “Oggi i detenuti sono circa 40 mila, 20 mila in meno rispetto a prima dell’indulto -aggiunge il sottosegretario alla Giustizia -. Non c’è dubbio che sui suicidi incidono anche l’affollamento e le condizioni di detenzione. Il fatto che per ora siano diminuiti è un buon segno”.
È più facile che in carcere si diventi delinquenti incalliti piuttosto che nuovi cittadini. “Il carcere così com’è è fallito – aggiunge Luigi Manconi – Dobbiamo rafforzare le misure alternative e destinare più risorse a quei progetti che permettono ai detenuti di uscire dal carcere e favoriscono il loro reinserimento sociale”.
Di indulto si è parlato oggi a Milano al convegno organizzato da Caritas Ambrosiana dal titolo “L’estremo rimedio. Giustizia penale e giustizia sociale oltre l’indulto”, durante il quale è stata presentata la ricerca sulla situazione socio-economica dei detenuti di S. Vittore, Opera e Bollate. “Il fatto che ci siano pochi recidivi fra gli indultati indica che la strada della pena non carceraria non ha nulla di velleitario -afferma don Roberto Davanzo-. Al contrario la logica punitiva della tolleranza zero rischia solo di aggravare la condizione di chi è in carcere”.
In carcere finiscono e rimangono i più poveri, in particolare gli stranieri. “Da una parte c’è bisogno di un supporto al contrasto delle varie forme di povertà ed emarginazione – sottolinea Cristina De Luca, sottosegretario al ministero della Solidarietà sociale -. Dall’altro c’è bisogno di una riforma della legge dell’immigrazione che favorisca l’ingresso regolare”. Dai dati della ricerca Caritas emerge che molti detenuti prima di commettere reati vivevano in una situazione difficile: mancanza di lavoro, livello di istruzione basso, problemi familiari. Persone insomma che avrebbero avuto bisogno dell’aiuto dei servizi sociali. “Ormai è chiaro che la prevenzione dei reati passa anche attraverso le politiche di Welfare – aggiunge Cristina De Luca -. In carcere c’è tutta una fascia debole di persone che con un’azione di prevenzione avrebbe potuto non cadere nella criminalità. Si tratta di mettere in campo politiche generali a favore della famiglia, del lavoro, dei giovani, delle donne e degli immigrati”.
Giustizia: i salvati e i caduti dell’Italia incattivita
(di Adriano Sofri – La Repubblica, 16 aprile 2007)
Questo è un articolo sull’Italia incattivita. Eppure le rondini sono arrivate, e in anticipo. Non passerà molto e torneranno le famose lucciole, e saranno anche loro più precoci e indaffarate. Poi arriverà il 2008, e i trent’anni da Moro. Ristamperò anch’io il mio libro, e intanto quell’ombra implacata agita già di nuovo le cronache. Si prometteranno chissà quali rivelazioni. Il mio indice si accontenterà di aggiornare la domanda di allora: a che punto è l’Italia? Qualcuno paventò, in quel maggio del 1978, “una deformazione del volto umano dell’Italia”. Successe, e il riscatto non è venuto.
Certo, il mondo intero è incattivito. Ogni luogo del mondo ha la sua data dopo la quale “niente è più stato come prima”. L’Italia ha quella. Moro lo scrisse: con la mia morte l’Italia non sarà più quella di prima. Non importa quanto fosse veritiero, e quanto edulcorato e artefatto il quadretto dell’italiano brava gente. Allora svanì, e lasciò una fisionomia pronta a storcersi per la rabbia e il rancore. Cattiveria è parola da bambini, Moro prigioniero la usò ripetutamente. Non è vero che il tempo guarisca le ferite. Il tempo, lasciato a se stesso, può esacerbarle, e renderle incurabili. Benché i muri siano caduti, la lotta politica è stata ancor più recitata come una parodia dell’eterna guerra civile.
Un anno fa il centrodestra volle far passare la sconfitta per un broglio. Il centrosinistra aveva improntato il meglio della sua campagna elettorale alla promessa di una svolta negli animi, un disarmo civile, uno spirito di riconciliazione da nuovo dopoguerra. Ora la delusione è diventata un luogo fin troppo comune, ma è su quel punto che si lascia davvero misurare, dell’Italia in cagnesco.
È il succo della vicissitudine di Mastrogiacomo e dei suoi poveri compagni. È successa una disgrazia, senza colpa. Le disgrazie succedono, all’improvviso, e fanno deragliare le vite ordinarie. Si deve lasciare il corso usato delle cose e affrontare la disgrazia, ciascuno con una propria responsabilità, non fosse che l’apprensione solidale. Un inganno infame ha fatto della vita di tre persone il gioco di una banda di invasati vanitosi.
Un inganno infame ha fatto della vita di tre persone il gioco di una banda di invasati vanitosi. Tre vite destinate al mattatoio: due sono state spente, e non resta che piangerle e augurarsi che gli assassini paghino caro il loro inganno, una è stata salvata, e bisogna esserne felici, per lui e per i suoi, sentendosi dei suoi. La si vorrebbe giocare come una resa dei conti con la bava alla bocca: largamente simulata in qualche personaggio, abbastanza al corrente della propria coda di paglia e abbastanza cinico per recitare secondo copione; più vera e schiumante per tanti cittadini, sobillati o no a pensare che “avete salvato uno dei vostri”.
Li guardo, questi che fanno le facce, senza alcun pregiudizio politico, perché sono stato sempre dalla parte di chi si adoperava per salvare vite rapite e minacciate, di chiunque si trattasse, persone insultate come “mercenari” o all’opposto come fiancheggiatrici del terrorismo. Ora che Berlusconi ha detto che bisogna mettere il buon nome comune al primo posto, basta solo che ci creda davvero. In una disgrazia un paese può riconoscersi e sostenersi, o rinnegarsi e maledirsi. Ma se con la vicenda afgana è così prepotente quest’ultima voglia, è per l’aria che tira.
Aria cattiva. Per questo si rievoca a ogni piè sospinto la trincea tragica del sequestro di Aldo Moro, nonostante il paragone sia così arduo. Con Moro, la superstizione della fermezza sostenne (e ripete ancora) che la strage della scorta vietava di salvare la vita a lui, a “uno di noi”. Così, c’è oggi chi vorrebbe Mastrogiacomo morto in nome dei due trucidati. Ancora, qualcuno ha ricordato di aver disposto, allora, in caso di sequestro, di non essere ascoltato: un’auto-interdizione preventiva che voleva attenuare l’interdizione e il rinnegamento del Moro prigioniero.
Ma di fronte ai sequestri è bene non limitarsi a immaginarsi nei panni del sequestrato, per figurarsi invece in quelli del padre, o della sorella, o del tutore involontario del sequestrato. Questo semplice slittamento dell’immaginazione serve a spazzolar via un po’ di polverina dorata dall’amor proprio, e a torcersi le mani come può fare chi non le abbia incatenate. E anche a non contentarsi della sfida scolastica fra la legge del sangue e quella dello Stato. Giuseppe D’Avanzo ha evocato qui Antigone, con un argomento suggestivo. Anche l’ombra sorella di Antigone segue i nostri passi, e quando affiora allo scoperto vuol dire che i nostri passi si avvicinano al baratro.
Ma Antigone, nata all’amore, può rivendicare l’ultima parola quando la disgrazia sospende il corso ordinario della vita, e della stessa legge. Creonte non è il buon governante, e la ragion di Stato non è la ragione. Antigone vuole dare sepoltura al corpo del fratello ribelle. Nella vastità del Laterano gli impietriti dignitari della repubblica celebrarono le esequie senza cadavere di Aldo Moro, tumulato dai suoi nel piccolo recinto di Torrita Tiberina.
Era inevitabile che fosse così? Forse i brigatisti di allora lo avrebbero comunque assassinato: ma gli italiani avrebbero pregato in un unico funerale. Si confonde l’aspirazione decisiva – la legge è uguale per tutti – con la formula militaresca, “non guarda in faccia a nessuno”. Bisogna guardare in faccia tutti: ci si accorgerà che tutti hanno una faccia, e non solo un poster elettorale, o dei polpastrelli da limare e bruciare con l’acido.
Come sono pesanti, i funerali. È appena successo di nuovo nella piazza in cui le porte della chiesa si erano chiuse al corpo di Pier Giorgio Welby. Bruttissima giornata dell’Italia incattivita. La Chiesa gerarchica ha voluto mostrarsi col gesto della Cacciata a uno che chiedeva di entrare – e che era per giunta morto, come ordini professionali e tribunali hanno certificato, senza violazione di legge. (Anche i tribunali sono incattiviti, e si troverà sempre un procuratore smanioso di riaprire la pratica).
La stessa Chiesa era stata protagonista della richiesta di clemenza, con l’appello tenace di Giovanni Paolo II, e la fede postuma che vescovi e preti gli hanno tenuto. In tutte le rilevazioni sul governo l’indulto figura al primo posto fra le ragioni di impopolarità, e del resto fu la prima delle sue decisioni importanti. Nessuna misura avrebbe più esemplarmente significato un’intenzione di ricominciamento della convivenza, nessuna avrebbe avuto un’impronta così “giubilare”.
La maggioranza parlamentare inaudita che la votò non ebbe intero il coraggio della sua azione e, quando non finì senz’altro con lo scaricarsene, si trincerò dietro argomenti d’emergenza: le carceri sarebbero esplose eccetera. Gli indirizzatori d’opinione, per scandalo vero o per compiaciuto scandalismo, anteposero i compromessi che era costato il voto al suo effetto per la moltitudine di disgraziati, e annunciarono catastrofi per la sicurezza dei cittadini.
I cittadini, allarmati e incitati contro il cinismo della politica, misero l’indulto in testa alla classifica della rabbia. Una campagna ostinata fece il resto, addebitando a vanvera all’indulto i crimini più efferati, inventando carceri di nuovo riempite. Intanto, il tempo documentava che i detenuti usciti in anticipo – 23 mila nel solo agosto scorso – non avevano peggiorato l’andamento della criminalità, e che i recidivi erano meno che negli anni “normali”.
Una spropositata distanza fra il fatto e, non dirò la sua percezione, che ormai è un luogo comune e un alibi, ma la sua presentazione. E questo nonostante che, non certo inavvertiti dell’impopolarità, il Presidente Napolitano, Romano Prodi e il ministro della Giustizia abbiano tenuto ferma la convinzione della bontà dell’indulto. E che la magistratura associata abbia riconosciuto che un’amnistia, irrilevante rispetto all’ulteriore svuotamento delle galere, avrebbe smaltito l’enorme arretrato di processi superflui. Ma, ha commentato Mastella, vallo a trovare chi nomini la parola amnistia con l’aria che tira.
Anche nella piazza di Welby, temo, non si trattava di un episodio: si trattava dell’aria che tira. La Chiesa che chiama a raccolta il suo reparto scelto e scava una trincea, persuasa che il medico pietoso procuri la morte delle anime dei suoi pazienti, è pronta ora a operazioni dolorose. Ho sentito un intelligente cittadino italiano e gay spiegare il proprio rimpianto per gli anni ‘60 e ‘70, nei quali, diceva, il pregiudizio della chiesa non si traduceva in un accanimento, e non impediva agli omosessuali di trovare ascolto e conforto umano nei preti, mentre oggi un’intolleranza militante rende le cose tanto più difficili e amare.
Non si può certo collegare alla durezza ecclesiastica il suicidio di un ragazzo irriso dai compagni: tuttavia si riconosce anche qui l’aria che tira. Eppure la Chiesa ha saputo tante volte custodire la carità che la vita pubblica e privata più facilmente dimenticano. Non torno a quel “partito dei vescovi e di Lotta Continua” sul quale si ironizzò troppo facilmente durante i 55 giorni di Moro. Ma la Chiesa ha fatto da argine alla più rischiosa manifestazione di risentimento e di chiusura degli italiani, quella contro gli stranieri poveri. Quanto durerà il nuovo corso?
E nel mondo laico? La stessa ispirazione di fondo del Partito Democratico era nella voglia di mettersi insieme, di mettere qualcosa in comune: magari il destino delle generazioni a venire, magari la parte dell’Italia nel grande mondo. Lo sconcerto che si è diffuso non riguarda tanto i programmi politici – i programmi politici sono tutti un po’ posticci, al momento: registrati in memoria di un passato da cui congedarsi, o al quale aggrapparsi – quanto una spinta contraria al mettersi in comune.
Una riluttanza a fraternizzare, a fare amicizia, a dirsi compagni come se fosse la prima volta. Una lite per la roba. Così l’aria che tira trascina la nostra comunità di qua e di là, sommergendo di applausi il digrignar di denti, partiti, serate televisive e blog e fermate d’autobus. Perfino nei suoi lustrini l’Italia incattivita cede alle piazze Loreto rosa. Qualcuno paventò, in quel maggio del 1978, “una deformazione del volto umano dell’Italia”. Quel qualcuno era Aldo Moro.