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“Ho ventidue anni, studio ingegneria e vorrei riuscire a rendermi indipendente dalla mia famiglia. Ma non c’è modo di riuscirci. Sarà perché la mia è una famiglia tipicamente italiana, matriarcale (sic!), sarà perché diventare indipendenti economicamente è più difficile oggi che venti o trenta anni fa, non lo so. So che se avessi delle possibilità di lavorare me ne andrei subito, invece so bene che anche quando avrò finito di studiare dovrà passare del tempo per trovare un lavoro e guadagnare la mia indipendenza”. Carlo non è molto convinto della suggestione estiva provocata dalle parole del commissario europeo Mario Monti, quella dello “sciopero generazionale” è una formula che non lo convince per nulla. “Non dobbiamo cadere nella trappola di scontrarci con la generazione dei nostri genitori, accettare la loro rottamazione, proposta con eleganza dall’avvocato Agnelli. Ci vuole una mediazione. Sì, quella è una parola magica”. Mediazione evoca subito, nel linguaggio criptico della politica, un altro termine di gran moda: concertazione. “Ma quale concertazione, io con mio padre non mi siedo a tavolino per concertare un bel niente, al massimo cerco una mediazione tra le mie esigenze e la sua situazione”. Certo, non è facile immaginarsi una mediazione di massa, tra i 20-30enni che affollano le liste dei senza lavoro, che allungano a dismisura i tempi della propria emancipazione dal nucleo familiare, che non sono capaci di trovare – e non cercano neppure – una forma incisiva di rappresentanza politica o sindacale delle loro ragioni, e, dall’altra parte della barricata, i loro genitori, confusi fra settantenni e ottantenni che non mollano le loro posizioni di potere – nelle aziende private come nella vita pubblica del Paese -, cinquantenni che godono dei prepensionamenti o dei doppi lavori e un numero sempre crescente di nuovi poveri che si incontrano fra le persone anziane e sole.

INTERESSI E PRIVILEGI
“Lo scontro generazionale appare una soluzione comoda per chi è convinto del modello economico-sociale liberista e competitivo” sostiene Susanna, 27 anni, collaboratrice coordinata e saltuaria (non continuativa) di diverse società di consulenza e ricerca per i reparti di marketing delle grandi imprese. “Ma è anche vero che se chiediamo di più, più garanzie, più servizi, più diritti, più possibilità, da qualche parte bisogna togliere. Non mi pare praticabile un gioco dove nessuno perda nulla, in cui si avvia una riforma dello stato sociale, si ridisegna il modello previdenziale, quello assistenziale, quello dell’accesso al mondo del lavoro, e non si ledono interessi costituiti, o privilegi acquisiti, magari scambiati per diritti”. Meno ai padri più ai figli è stato lo slogan di una proposta di riforma del welfare tratteggiata nei mesi scorsi da Nicola Rossi, economista di punta dello staff di Massimo D’Alema. Ma neanche l’azionista di maggioranza del governo Prodi ha osato molto sul piano della traduzione di questo slogan in politiche attive. Miriam Mafai ha giustamente osservato su “la Repubblica”, nel dibattito estivo scaturito dalla provocazione di Mario Monti, che il corpo attivo, in termini di militanti e di quadri intermedi – oltre che di dirigenti – delle organizzazioni sindacali e politiche, soprattutto “di sinistra”, è composto per la stragrande maggioranza proprio da quelli a cui bisognerebbe togliere qualche cosa se si volesse ridisegnare il welfare.

GUERRE TRA POVERI
“È chiaro – prosegue Susanna – il rischio è quello di scatenare una guerra interna alle fasce deboli, per fare il gioco dei soggetti più indifferenti alle politiche di welfare, perché non ne hanno bisogno. È un gioco facile quello di chi usa l’alibi dei diritti delle giovani generazioni per scardinare del tutto le politiche di assistenza e per ridurre il ruolo dei servizi pubblici su questo fronte”. “Ad esempio – aggiunge Stefano – il Comune di Milano, per i servizi ai minori, si affida ormai totalmente alle cooperative del privato-sociale, rinunciando a esercitare un ruolo in prima persona. Io ci lavoro da qualche anno, e mi accorgo che, per esempio, affidare la gestione delle colonie estive per i bambini al privato (sia pure sociale e cooperativistico e no profit e tutto il resto che ci vogliamo aggiungere) ha, nella realtà, ridotto i servizi che vengono forniti. Così il Comune risparmia quando stipula le convenzioni e i cittadini hanno motivo per essere contenti. Ma poi ti accorgi che, magari, hanno tagliato i corsi di una determinata attività sportiva. Certo, non sarà essenziale, certo l’utilità e il principio della colonia estiva sono salvi, ma qualcosa si è perso per strada, e l’anno prossimo si potrà tagliare qualcos’altro”. Stefano di anni ne ha 24, e dello sciopero generazionale non dice niente. Però gli brillano gli occhi quando racconta di quel suo amico svedese che gode di un sussidio statale mentre frequenta l’università, così da poter vivere con degli amici, senza i genitori. Perché la famiglia non sarà forse proprio matriarcale in Italia, ma sicuramente incide molto nella determinazione degli stili di vita di questo Paese. Il familismo italico – tratto caratterizzante del modello economico-sociale della penisola – è stato anche suggerito da Paul Ginsborg come una delle chiavi di lettura della storia d’Italia dell’ultimo secolo. Genera un ritardo nell’assunzione o nell’attribuzione di responsabilità e rafforza gli effetti della difficoltà che incontrano i giovani nella ricerca della propria prima occupazione.

DOLENTI O INDOLENTI?
“Siamo una generazione indolente”, afferma Pierfrancesco, 25 anni, attivo protagonista di movimenti studenteschi e giovanili, “per questo ritardiamo l’emancipazione, non costruiamo forme di rappresentanza dei nostri interessi, non conosciamo il senso di una mobilitazione collettiva. Non ci sarà mai lo sciopero generazionale, pur esistendo un blocco generazionale. Sono bloccati gli accessi alle professioni da leggi corporative sugli ordini professionali che, forse, verranno minimamente intaccate solo perché siamo costretti ad adeguarci alle normative europee sulla libera concorrenza. Non c’è accesso alla previdenza e non ci sarà per quelli che cominciano oggi a lavorare. Non ci sono meccanismi fluidi di ingresso nel mondo del lavoro. C’è l’idea curiosa che la flessibilità significhi solo possibilità di licenziare per le imprese, mentre gli industriali non scuciono una lira per investire nella formazione permanente dei lavoratori. Immaginati la possibilità, dai 19 ai 28 anni, di alternare un anno di lavoro e uno di studio e di formazione utile per l’azienda in cui lavori. Fantascienza”. Silvia, 19 anni, matricola di Scienze Politiche, dice che quella dello sciopero generazionale “è una boutade ipocrita. Figuriamoci, in una situazione in cui l’unico porto sicuro è la famiglia, che agisce come calmiere dei potenziali conflitti, io dovrei ribellarmi contro mia madre? Al limite provo ad allearmi con lei”. “Non so chi debba pagare il conto di tutta questa situazione – sbotta Paolo – ma so che io vorrei un posto di lavoro. E sottolineo, un posto di lavoro, non un lavoro e basta. Molti di noi hanno digerito la faccenda della mancanza di certezze e di garanzie. Molti vivono il lavoro saltuario e “atipico” come una conquista di libertà; ma io so che le garanzie che ti offre un posto di lavoro danno una serenità maggiore per affrontare le altre tappe della vita. Mettere su casa, diventare genitori, potersi ammalare. Non capisco perché questo governo di centro-sinistra, che ho sostenuto e in cui ho creduto, non sia capace di trovare una risposta che non debba essere il controcanto delle dichiarazioni di un economista di destra. Io lo farei uno sciopero generazionale”. E, in effetti, pur effettuando questa “tavola rotonda” in un gruppo di persone informate, abbastanza attente alle vicende politiche e sociali, l’idea che non si stia proponendo – da parte del governo, ma anche delle singole forze politiche – una via d’uscita al malessere sommesso di una generazione, esiste. Incentivi per il lavoro, prestiti d’onore, corsi di formazione, sostegno all’acquisto per la prima casa e per la maternità. Sono tutte esigenze diffuse e comuni, che non trovano, o forse non identificano una risposta in alcun provvedimento fra i tanti che vengono annunciati, commentati, modificati e ritirati o approvati.

L’ERBA DEL VICINO
Salario minimo garantito, sussidi, reddito in servizi o in denaro. Non esiste alcuna chiarezza e alcuna certezza. Ogni altro Paese d’Europa appare un mito irraggiungibile. “In Svizzera c’è un sussidio se perdi il lavoro, sulla base del tuo reddito dell’anno precedente, quindi vale anche se avevi lavorato in ritenuta d’acconto. Da noi, al limite, c’è la cassa integrazione per chi era regolarmente assunto”. “In Francia due miei amici sono andati a vivere insieme mentre frequentavano l’università, perché esistono molte possibilità di alloggio a basso costo per gli studenti”. “In Inghilterra esiste il sostegno per la disoccupazione”. “In Germania ci sono liste di collocamento per gli studenti universitari, che vengono aiutati a trovare lavori part time o a tempo determinato nel settore in cui stanno preparandosi. Così poi avranno più contatti e più possibilità di trovare un lavoro vero”. E in Italia cosa c’è ? Qual è la concretezza dei provvedimenti su cui si sprecano mesi di dibattito politico? Forse esiste davvero la necessità di immaginare una forma di rappresentanza, di lobbying, delle giovani generazioni. Il ministero della Solidarietà sociale aveva lanciato in pompa magna, alcuni mesi or sono, il progetto di costituzione di un’Agenzia nazionale per le politiche giovanili, capace di coordinare le competenze e le iniziative di quella dozzina di ministeri in cui sono disperse oggi le iniziative e le risorse indirizzate a questo scopo. Quella proposta potrebbe rappresentare un primo tentativo di chiarezza. Altrimenti non ci resta che aspettare il prossimo sollecito estivo ad affrontare la questione, dimenticando che la “famiglia lunga”, l’abbassamento vertiginoso del tasso di natalità, la pigrizia associativa e intellettuale di una generazione, generano effetti di lungo periodo sulle capacità di una società.

EGOISMI GARANTITI
“Forse dovremmo ragionare in dimensione europea – conclude Ettore, 30 anni, giornalista – perché una riforma e un’armonizzazione delle politiche sociali nell’Unione Europea può solo farci del bene. Quello che non sopporto è che si scateni un dualismo tra presunti garantiti e aspiranti garantiti. Ho partecipato a una trasmissione radiofonica su questi temi. Tutte le telefonate delle ascoltatrici (solo donne) avevano un ritornello. Dicevano di avere poco e di non essere disposte a rinunciare a quanto avevano conquistato in favore dei nuovi arrivati. Rafforzare gli egoismi e sviare l’attenzione da chi dispone di grandi risorse e opportunità per puntarla verso i gruppi sociali medio bassi è il chiaro obiettivo dei rottamatori di professione. Possiamo e dobbiamo rivendicare diritti e garanzie, ma non possiamo permetterci di essere strumentalizzati da Mario Monti o da Gianni Agnelli. Sarebbe grottesco”.