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Nel mese di agosto, molti giornali hanno diffuso una notizia che appariva clamorosa: una ricerca dell’Università di Cagliari e Sassari aveva dimostrato, attraverso una ricerca su animali da laboratorio, che “anche la marijuana provoca una dipendenza, al pari delle altre droghe più note e pericolose”. Con l’implicito presupposto che, a questo punto, il dibattito sulla cannabis doveva ripartire da zero. Per una valutazione approfondita dei risultati della ricerca (pubblicata in: Proceedings, National Academy of Sciences, USA, 18 agosto 1998), può essere utile riportare una serie di commenti formulati dal professor Gianluigi Gessa, docente di Farmacologia nonché coordinatore della ricerca stessa, nel corso di una intervista rilasciata a Roberto Spagnoli per Radio Radicale il 24 agosto 1998: “A differenza dalle altre droghe, nicotina, alcool, eroina, cocaina, in cui la sindrome di astinenza è nota e visibile, la sindrome di astinenza da marijuana non si vede. Col nostro studio abbiamo scoperto che i neuroni del desiderio e del piacere sotto l’effetto del THC soffrono quando si smette di somministrare il farmaco. (…) La conclusione, semplificando, è che la crisi di astinenza da marijuana si può vedere, purché si vada a cercare nel cervello e nella zona giusta”. In pratica, ciò significa che: 1) la dipendenza da cannabis è comunque paragonabile a quella determinata anche da sostanze legali di uso comune, come alcool e tabacco; 2) la “sindrome di astinenza” da cannabis, a differenza da quella di alcool e tabacco, non si concreta in sintomi evidenti, a meno che non “si vada a cercare”. Ma fra cannabis e altre droghe esistono altre fondamentali differenze: “Mentre le modifiche prodotte dall’assunzione cronica di alcool sono irreversibili, quelle prodotte dall’assunzione di marijuana sono di natura bioelettrica, (…) ma non è detto che con la marijuana la normalità non si restauri nel tempo, anzi, nel nostro stesso lavoro si dimostra che 24 ore dopo l’astinenza l’attività dei neuroni torna alla norma”. In pratica, ciò significa che, dopo un giorno, la cosiddetta dipendenza da cannabis è scomparsa. Se si considera che (come documentato dai dati epidemiologici di molti Paesi) gran parte dei consumatori fa uso di cannabis non più di una volta al giorno, la dipendenza interessa eventualmente una minoranza di consumatori. Ma anche per questa minoranza basta astenersi per un giorno per liberarsene: una soluzione ovviamente irrealizzabile per i tossicodipendenti “legali” di alcool. Sulle dosi somministrate agli animali, il professor Gessa ha affermato: “Abbiamo usato dosi paragonabili a quelle di un forte fumatore di cannabis per dieci giorni; ma negli animali da laboratorio dieci giorni corrispondono a molti mesi nell’uomo. Questa ricerca, se ha un significato per l’uomo che è tutto da dimostrare, vuole dire che fumare continuativamente grosse quantità di cannabis non fa bene presumibilmente all’umore”. Ma – ha chiesto giustamente Spagnoli – in che misura questi risultati sono trasferibili dagli animali da esperimento agli esseri umani? “Per estrapolare questi effetti dal ratto all’uomo, occorre avere la stessa cautela che dovrebbe avere un giudice quando interroga un pentito: bisogna avere dei riscontri. Noi abbiamo buone ragioni per ritenere che queste ricerche su animali hanno un significato anche per l’uomo. Naturalmente l’onere della prova è nostro: noi dovremmo dimostrare che valgono anche per l’uomo”. Insomma, i risultati della ricerca delle Università di Cagliari e Sassari non dimostrano, come superficialmente è stato riportato dai giornali, che la cannabis determina una dipendenza negli esseri umani, a meno che tale dipendenza non venga confermata da altri dati e altre ricerche. A questo proposito occorre ricordare che, appena tre mesi, fa l’autorevole Rapporto Roque, commissionato dal ministro della Sanità francese Kouchner, ha classificato la cannabis come una delle droghe meno pericolose fra quelle legali e illegali, anche per i suoi bassi (ancorché esistenti) rischi di dipendenza. Infine, resta la questione politica: se cioè i risultati della ricerca giustificano il regime di illegalità della cannabis, come molti proibizionisti nostrani hanno sostenuto. Su questo punto, rispondendo a una precisa domanda di Spagnoli – “È ancora favorevole alla legalizzazione delle droghe?”, il professor Gessa è stato molto chiaro: “Sono ancora un pan-legalizzatore non pentito”.