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Nel momento in cui mi accingo a scrivere non so più da che pulpito dire la mia. Non so cosa sia giusto o sbagliato in questa intricatissima faccenda. Nell’esistenza degli uomini e delle donne ci sono cose che non sempre vanno così precise sul giusto o sullo sbagliato. Questa dello scambiarsi sesso per denaro ne è una. Sembra che tutti abbiano torto e ragione. Chi ne parla soltanto e chi ne scrive sui giornali, quelli che si lamentano dello “schifoso” via vai sui marciapiedi sotto casa la notte e quelli che lo paventano nei pianerottoli del proprio condominio.
S’è urlato, da femministe, qualche decennio fa: L’utero è mio e lo gestisco io. Per traslazione in automatismo, si può dire la stessa cosa di ogni altra parte del corpo e di esso tutto intero. Perché no? Lo gestisco io in uso e in abuso. Perché no? Ma il corpo è mio oppure io sono il mio corpo? Dove sto io rispetto al mio corpo? Rispetto alle sue parti separate l’una dall’altra? Rispetto alle sue diverse funzioni? Sono o no sua padrona di diritto e ci faccio perciò quello che mi pare? Lo copro, lo scopro, lo nutro fino a farlo scoppiare, lo tengo a digiuno, lo faccio ingravidare, lo aiuto a morire quando non ce la faccio più. Ne sfrutto le mani o il cervello per farlo lavorare. Lo faccio andare in guerra o per la pace. Lo immolo agli ideali, lo vendo e lo regalo. Lo tengo al riparo tutto per Dio o lo distruggo dissipandolo nel vizio. Il corpo è mio e lo gestisco io. O no? A rigore di questa logica: perché si può, anzi si dovrebbe, a essere davvero di buon animo, dare via un rene e non il sesso? E perché, in virtù di una contrattazione privata, non ne potrei accettare in cambio del denaro? Magari offerto per gratitudine in cambio del bene che elargisco col mio rene o col mio sesso?
Sullo stato delle cose oggi, per ciò che passa tra privato e pubblico e tra male e bene nello scambio libero tra esseri umani, è davvero così indecente l’accostamento che sto facendo tra meretricio non coatto e “donazione” degli organi? La funzione di un organo sessuale non può essere equivalente a quella di una cornea? O di un cuore?
Sto provocando, è vero. Metto accanto al diavolo l’Acqua Santa e non si fa. Soprattutto se oggi c’è da mettere ordine nella strabordante confusione morale postmoderna in cui ciascuno si arroga il diritto di decidere per sé, persino quando morire, e di poterlo fare a proprio modo. Pretendendo pure la benedizione dello Stato. Il che naturalmente è sacrosanto, fermo restando il proliferare indotto della trasformazione di ogni bisogno o realtà privata, in diritto e scena pubblica.
E lo Stato ci sguazza contento. Leggi, leggine e ordinanze a ogni piè sospinto, vietano o impongono di tutto al nostro vivere quotidiano, sottraendo forza, autorità e competenza ai rapporti liberi tra gli esseri umani in carne ed ossa, quando sono chiamati a fare i conti con se stessi secondo coscienza e a dare risposte in prima persona, a urgenze, bisogni e desideri che poco avrebbero a che fare con gli imperativi di normalizzazione. Siano essi d’amore chiaro e trasparente o annebbiati da qualche necessità non del tutto limpida.
Assistiamo perciò al rovesciamento dell’ordinario buon senso: quasi tutto quello che dovrebbe restare pubblico, ad esempio le strutture erogatrici di servizi primari, viene privatizzato e tutto quanto sarebbe bene che restasse sostanzialmente privato viene reso pubblico. Per poi regolarlo, vietandolo o imponendolo per legge. Alla luce del moralismo più o meno ipocrita dell’ultim’ora, prevalente nello schieramento politico che ha guadagnato il turno per maggioranza in Parlamento o al governo delle città.
Una volta l’ipocrisia era peccato piuttosto grave, se non mortale – ricordate? Guai a voi, ipocriti… – ora soccorre i legislatori, anzi le legislatrici, se non per eliminare il male dell’“indegna schiavitù” che pare non ci si riesca proprio, di qualunque tenore esso sia naturalmente, almeno per renderlo “inesistente” all’apparenza. E la miseria del corpo sulla scena pubblica, come gli orribili degradi umani, spariscono d’un botto dalla nostra vista di persone per bene.
Viva il decoro di chi “non lavora per i soldi”. Tanto saranno i soldi a lavorare per lui.