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Il governo Blair intende rimettere in funzione gli ospedali psichiatrici e agevolare il ricovero definitivo dei malati di mente giudicati “pericolosi”. Questo messaggio è stato ribadito più volte negli ultimi mesi dopo la vicenda di Michael Stone, che aveva ucciso una donna e la sua bambina qualche giorno dopo essersi visto rifiutare il ricovero in manicomio. Il ministro della sanità Frank Dobson aveva ripetutamente dichiarato l’intenzione di “rimettere in ospedale psichiatrico le migliaia di malati di mente che oggi stanno in strada”, mentre a metà febbraio il ministro dell’interno Jack Straw ha annunciato che sta lavorando alla modifica del Mental Health Act per “chiudere quella scappatoia legale che consente la libertà di psicopatici potenzialmente pericolosi” per i quali intende invece “disporre, anche se dichiarati non curabili, l’internamento definitivo in ospedale psichiatrico” (e non in carcere, come è stato erroneamente riportato da giornali e tv italiani). Occorre ricordare alcuni fatti della storia recente per capire che cosa stia succedendo in questa Inghilterra laburista dove le carceri sono piene come non mai, dove sta crescendo la devianza e la repressione dei minori e dove gli ospedali psichiatrici sono tutt’altro che chiusi, anche se i letti sono stati più che dimezzati in 18 anni. Sono stati i governi conservatori – come non mancano di ricordare Dobson e Straw – a realizzare la politica di decarceration dei malati di mente, con uno stile che non lasciava dubbi sulle finalità: pesanti tagli di bilancio, chiusura dei manicomi di media taglia, internati trasferiti oppure dimessi con un sussidio che andava ai proprietari di pensioni a basso costo, infermieri a spasso e sindacati sconfitti, medici pubblici irrisi perché improduttivi: “se i manicomi sono così pieni significa che voi siete incapaci di curare” argomentava Tatcher non senza ragione. In questo clima di guerra al servizio pubblico, nell’assenza di strutture territoriali in grado di far a meno del manicomio, e, infine, nel culto rampante dei costi/benefici nasce la riforma del Mental Health Act del 1983. Questa riforma lascia intatto il potere dello psichiatra di disporre l’internamento per pericolosità sociale e introduce due novità: da un lato alcune garanzie (il paziente può ricorrere a una commissione di tutela dei diritti, può rifiutare il trattamento farmacologico ecc.), dall’altro il vincolo dell’efficacia: il medico può trattenere un paziente (e quindi far pagare alla collettività il suo ricovero) solo in quanto si tratti di una sindrome treatable, curabile. Ed eccoci al punto. Michael Stone, che aveva passato la vita tra carceri e manicomi e oggi sconta l’ergastolo, non è stato ricoverato perché si trovava addosso una diagnosi di “personalità psicopatica”, che gran parte degli psichiatri ritiene non curabile o non di pertinenza psichiatrica. Ed è qui che il ministro Straw vuole intervenire, utilizzando un arnese screditato della psichiatria positivista e cavalcando ancora una volta l’illusione che rinchiudere molti innocenti serva a prevenire il crimine di qualcuno. Non è affatto detto però che alla probabile modifica della legge in senso più repressivo seguirà davvero una crescita dell’internamento psichiatrico. Il ministro Dobson ha già fatto presente che costerà molti milioni di sterline migliorare l’assistenza ai malati. Ha quindi annunciato per ora misure quali l’internamento dei pazienti che non prendono i farmaci prescritti dal servizio ambulatoriale e l’apertura di unità di crisi, misure da stato leggero, insomma, un mix di repressione e di vigilanza senza promesse che sembra il tratto caratteristico di questo laburismo post-tatcheriano.