Tempo di lettura: 4 minuti

Un’estate scandita da numerose vicende che hanno posto, in vari modi, il tema della giustizia al centro dello scontro politico, dell’attenzione dei mezzi di informazione, delle discussioni meno impegnate – estive, appunto – e di quelle più preoccupate di chi ritiene che il corretto esercizio di giustizia sia un bene costitutivo di una democrazia, richiedeva un autunno di chiarimento. Sia attraverso un segnale di riconduzione di un scontro ormai tendente alla rissa nel giusto alveo di distinzione di ruoli e ambiti tra sistema politico e sistema giudiziario, sia attraverso la ridefinizione di prospettive comuni tra le forze di governo che evitasse il ripetersi di divisioni e sbandamenti. La cronaca, anche degli ultimi giorni, ne ha fatto emergere ancor più la necessità: da un lato, le immagini televisive di un interrogatorio condotto secondo metodi inquisitori e con prassi estranee al nostro ordinamento, da un altro, l’interessata tendenza nei commenti di parte a non circoscrivere l’episodio nei limiti della sua gravità e singolarità, ma a utilizzarlo per altri fini, in funzione delegittimante del complessivo operare della magistratura; un altro tassello per la rissa. Non solo, ma la cronaca ci ha riportato anche le immagini, a cui non ci rassegniamo ad abituarci, di condizioni detentive, spesso disperate e disperanti, sempre prive di ragionevolezza. Tutte questioni, quindi, che hanno fatto salutare con favore l’intenzione di un chiarimento: l’approvazione di un documento comune delle forze di maggioranza per ribadire princìpi, per individuare prospettive di riforma, per recuperare all’ordinarietà un sistema giudiziario ormai eccessivamente connotato da logiche di emergenza; soprattutto per chiarire a un’opinione pubblica giustamente confusa che la giustizia non è tema di patteggiamento politico. Tuttavia, un documento programmatico di metà legislatura, se non vuol essere una certificazione di debolezza – quasi il testimone dell’assenza di una precedente concordanza sulle linee guida – deve avere una chiara connotazione di percorso: non deve eludere i problemi più spinosi, deve fare il punto sulle mete non raggiunte, e forse anche sui perché, e deve indicare con chiarezza priorità, tempi, modi delle azioni che si intende condurre. Secondo questi parametri va dunque letto il recente documento messo a punto da Ulivo e Rifondazione, per capire se aiuta o meno ad uscire dall’insopportabile afa estiva. Un primo merito di questo elenco di “impegni del centrosinistra per la riforma della giustizia” sta senza dubbio nell’aver sgombrato il campo dalle inadeguatezze e dalle ambiguità contenute in un precedente documento elaborato dal governo, nei primi giorni di questo mese; un secondo, nell’enunciare una serie di criteri e di princìpi a cui la complessiva riforma dovrà attenersi, in parte recuperando ipotesi di programma che, dichiarate alla vigilia della legislatura, si sono andate perdendo nei mesi successivi, in parte mettendo nero su bianco alcune volontà che il partito di maggioranza aveva dichiarato nel convegno pre-estivo di Napoli, denominato, un po’ eccessivamente, “Stati generali sulla giustizia”. Tutto bene, quindi, sulla volontà di andare alla riscrittura del codice penale in un’ottica che superi il ricorso eccessivo e frammentario alla legislazione penale speciale, sul riscoprire la sussidiarietà dello strumento penale, che deve intervenire solo laddove lo richieda la gravità dei reati e l’impossibilità di altre forme di intervento; così pure sulla volontà di modificare le pene in entità e modalità, con un più largo accesso a forme alternative alla detenzione e anche – così si legge – con la previsione di una nuova legge penitenziaria. Le perplessità e i dissensi non nascono dalle enunciazioni: nascono quando si passa a leggere gli impegni presi e le omissioni. Si scopre in primo luogo che il superamento del “panpenalismo”, la volontà di ridurre l’ambito del penale, non passa attraverso la questione del consumo di droghe: questo tema viene stralciato dal testo di moderata depenalizzazione, approvato dalla Commissione giustizia del Senato, e rinviato ad altri tempi e luoghi. Si accenna a un suo rinvio a un fantomatico “progetto Turco”: perché mai dovrebbe essere il ministro per la solidarietà sociale a intervenire in materia penale? Esiste poi questo progetto? In realtà, lo si rinvia sine die in cambio del corrispondente accantonamento del tema del finanziamento illecito ai partiti, sulla cui depenalizzazione premevano i Popolari. È lecito questo baratto? E quale segnale dà in tema di giustizia – di un bene che non può essere oggetto di mercato – ai giovani, alla collettività, a tutti coloro che non fingono di ignorare che il problema della disperazione carceraria coincide oggi con quello della detenzione per reati legati alle droghe? A questa scelta inaccettabile ne seguono altre di omissione o di reticenza su temi centrali. Così, mentre alcune intenzioni vengono corroborate con una indicazione sul percorso parlamentare delle corrispondenti proposte di legge, su altre si sfuma: si afferma la volontà di abolire l’ergastolo, ma non si assume alcun impegno sul cammino della corrispondente legge che, approvata al Senato, è ferma in commissione nell’altro ramo del Parlamento; si dichiara di voler intervenire con un “intervento legislativo di riequilibrio degli effetti della legislazione di emergenza contro il terrorismo”, senza citare la legge di indulto, presentata da dieci anni, firmata un po’ da tutte le forze di maggioranza, e che da più di un anno attende il voto conclusivo della commissione giustizia della Camera. Tra enunciazioni e impegni si stabilisce così un doppio livello: le prime, non trovando corrispondenza nei secondi, rischiano di perdere la loro significatività; i secondi, svincolati dalle prime, sono destinati ad essere riportati nello stretto solco di gestione dell’esistente. Né cautele e cedimenti riescono a vincere sul terreno dei nodi di conflitto che tengono in stallo il dibattito politico sulla giustizia: lo scontro sul finanziamento illecito ai partiti è rimosso, rinviato, giacché si parla di “effettive, efficaci” sanzioni, ma non si precisa se di natura penale o amministrativa; così come è rinviato lo scontro sulle modifiche all’articolo 192 del codice di procedura penale, sulla valutazione della prova nel caso di dichiarazioni di collaboratori, punto di acuto conflitto non solo con l’opposizione, ma, evidentemente, con parte non irrilevante della stessa maggioranza. Certo, accanto alle retromarce sulla droga, alle reticenze e ai problemi irrisolti, resta un quadro di punti di impegno: sul piano dei princìpi ribaditi, su quello della costruzione di una cultura della legalità che affronti a monte il problema della corruzione; sul piano, infine, delle riforme costituzionali da proporre in tema di giustizia, riprendendo alcuni punti significativi del testo della bicamerale circa il giusto processo e la necessità di tutelare il codice penale da interventi frammentari, disorganici, di emergenza . Ciò che non appare è la capacità di affrontare il nodo del rapporto tra riforma penale e sistema della democrazia: né sul versante della riduzione della domanda sociale di penalità attraverso una riqualificazione della politica, né sul versante della stretta connessione tra tutela delle garanzie ed effettiva azione di giustizia, né, ancora, su quello di una visione riformistica alta. Non ci porta fuori dalla “Repubblica penale”: stiamo ancora risolvendo le sue contraddizioni marginali.