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1994: l’Italian crackdown; il primo grande incontro-scontro tra la realtà della telematica amatoriale italiana, ormai matura ed estesa, e il potere giudiziario. L’iniziativa partì da Pesaro, con l’obiettivo di stroncare un giro di pirateria software, ma quella che sarebbe dovuta essere una operazione “chirurgica” di perseguimento di un reato si concretizzò in un sequestro indiscriminato di computer e nell’inquisizione di centinaia di operatori – che in massima parte nulla avevano a che vedere con la pirateria. I risultati in termini di crimini sventati non furono, pare, eclatanti. Ma lo smantellamento di una buona parte della rete e i danni inferti ad appassionati che vi dedicavano disinteressatamente tempo e denaro, furono tali da azzoppare lo sviluppo di una telematica sociale in Italia. Alcuni videro nell’indagine una deliberata intenzione di riportare quell’area della comunicazione nel controllo dei poteri costituiti. In tutti i casi, un tema cruciale era già alla ribalta: la confusione tra chi si rende responsabile di un reato e gli strumenti attraverso cui il reato è compiuto. Sequestrare un computer usato per scopi leciti da tante persone e associazioni, a causa dell’uso illecito che qualcuno (forse) fa di quel computer, è un’ingiustizia. 1998: è esplosa nel frattempo Internet, ed è diventata abbastanza popolare da destare nuovamente le attenzioni del potere. È un crescendo. A marzo scoppia il caso Musti. Un magistrato bolognese sporge denuncia contro un editore e due Internet provider per aver diffuso un libro-denuncia su una sua precedente inchiesta. Chi ha letto il libro stenta a credere che contenga materiale diffamatorio, quanto piuttosto della tagliente e sana critica. Si tratterebbe di un caso banale, se non fosse per quanto scritto nell’atto di citazione: esso esplicitamente sostiene il concetto – mai stabilito per legge – che un Internet provider sia giuridicamente responsabile al pari di un editore, nei confronti del materiale contenuto nel suo sito, anziché ritenere che l’unico responsabile eventualmente perseguibile sia l’autore del testo. Il tutto, con l’evidente conseguenza di intimidire i gestori di server, rendendoli ipersensibili nei confronti di qualunque materiale “discutibile” pubblicato: 450 milioni di danni richiesti non sono pochi. La vicenda è aperta. Si continua col sequestro del server di “Isole nella Rete”, lo scorso giugno. L’importante provider no profit, ospite dei siti di numerosi centri sociali nonché di associazioni come la LILA, viene messo sotto sequestro dalla polizia postale di Bologna per la presenza in una sua mailing list di un messaggio di controinformazione sulla questione curda in Turchia, ritenuto diffamatorio. Viene interrotta da un giorno all’altro l’attività di decine di realtà sociali, privando migliaia di persone di un essenziale mezzo di comunicazione, per rimuovere, a scopo preventivo, il messaggio. I paragoni si sono sprecati: era come chiudere una città per cercare un motorino rubato, chiudere tutte le librerie d’Italia per impedire la vendita di un libro diffamatorio… La vicenda ha una certa risonanza; il “Washington Post” del 5 luglio ne parla con una punta di sarcasmo e sottolineando come siano “i discorsi impopolari, in particolare quelli politici, che più prontamente attirano la repressione”. Lo stesso articolo cita anche una curiosa proposta del governo britannico: istituire una commissione che intervenga direttamente sui service provider, bypassando la denuncia all’autorità giudiziaria, per ottenere la rimozione preventiva di materiale diffamatorio o che violi copyright. E commenta: è uno “spettacolo istruttivo” vedere simili attacchi alla libertà di espressione in Paesi democratici. Non finisce qui: pochi giorni dopo, la chiusura della rete civica romana. Il servizio fornito dal Comune di Roma a varie entità sociali – tra cui WWF, LIPU, Associazione per la Pace, ecc. – e a tutti i cittadini, attraverso gruppi di discussione, viene sospeso dalla responsabile Mariella Gramaglia per presunti collegamenti col mondo della pedofilia online. La solfa è la solita: per – eventuali – colpe di qualcuno, si calpestano – per certo – i diritti di molti. D’altronde, i diritti inalienabili delle persone sulla Rete non sono ancora riconosciuti e codificati e il diritto stesso di accesso è ancora visto come un lusso, sacrificabile a qualunque interesse “superiore”. Tranquillizza poco il fatto che il sito sia stato in parte ripristinato, se poi non ci si può fare affidamento per il proprio lavoro. Ultimo episodio in ordine di tempo: un secondo attacco a “Isole nella Rete”. Il 26 agosto funzionari di polizia tentano, senza successo, di farsi consegnare i dati di coloro che si sono collegati a un sito ospitato dal server, minacciando anche il sequestro della macchina. L’ordine viene dalla Procura di Massa, che indaga sul movimento anarchico toscano. “Preferiamo rischiare di proteggere un possibile “criminale” per tutelare centinaia di “innocenti”, piuttosto che consegnare le informazioni relative alle scelte politiche e sessuali di centinaia di “innocenti” per colpire un improbabile “criminale””, dichiara Isole, spiegando che ha già provveduto a rimuovere o anonimizzare tutti i dati relativi ai collegamenti effettuati (log). Di carne al fuoco ce n’è molta. Gli episodi sono indipendenti l’uno dall’altro, ma i punti in comune sono chiari. Le due grandi questioni sono la libertà di espressione e la riservatezza, due questioni classiche della democrazia, che Internet rilancia con nuovo vigore. Sulla libertà di espressione non vedo problemi di principio: ognuno si assuma le proprie responsabilità per quello che dice e fa in Rete, secondo i criteri vigenti nel “mondo reale”. L’idea che il gestore di un server possa accollarsi l’onere di vagliare tutto il materiale che veicola, senza travisare il carattere stesso di newsgroup e mailing-list, può venire in mente solo a chi ha capito poco di Internet; mentre chi suppone che lo stesso webmaster debba trasformarsi artificiosamente da tecnico in severo censore, per evitare di essere punito per colpe altrui, mostra di aver capito fin troppo bene il potenziale di liberazione delle idee e dei pensieri della Rete. Questa linea censoria, comunque, non passerà. Ai primi di luglio si è positivamente conclusa una vicenda giudiziaria esemplare che ha coinvolto i proprietari di un server che mette a disposizione aree di discussione, l’autore di un messaggio e una banca ritenutasi diffamata. La Prima sezione del tribunale civile di Roma non solo ha giudicato il messaggio in questione come una legittima espressione di critica, ma ha anche escluso a priori un’eventuale responsabilità del provider, sottolineando che “il news-server si limita a mettere a disposizione degli utenti lo spazio “virtuale” dell’area di discussione e nel caso di specie, trattandosi di un newsgroup non moderato, non ha alcun potere di controllo e vigilanza sugli interventi che vi vengono inseriti.” La seconda questione, si diceva, è la riservatezza. Qui però c’è una differenza rispetto al “mondo reale”. Sulla Rete, con l’aiuto di un algoritmo di crittografia “forte”, la propria privacy può essere realmente inviolabile! La riservatezza della corrispondenza privata è garantita da sempre, e nessuno si è preoccupato del rischio che i pedofili possano scambiarsi le loro comunicazioni per posta; non si sa se per distrazione, o perché quella riservatezza non è, nei fatti, così inviolata. Per le comunicazioni telefoniche, la scelta è stata diversa: è prevista esplicitamente la possibilità di intercettazioni da parte della magistratura. Sono uno strumento utilissimo per combattere la criminalità, anche se ogni tanto il testo di un’intercettazione finisce in prima pagina o qualche statistica dice che in Italia si intercetta, in termini assoluti, molto più che negli Stati Uniti. La crittografia inviolabile in Italia per ora è liberalizzata; non così, ad esempio, in Francia. È tutta una questione di scelte. Si può privilegiare il diritto supremo alla privacy individuale, oppure vi si può derogare quando ci sia il sospetto di reati. Si può rischiare, come ha fatto Isole, di lasciare indisturbato un criminale, oppure di violare dati riservati di centinaia di persone – qualcuna delle quali potrebbe essere ricattabile, chissà. È un rebus che si scioglie solo con una scelta politica, di fronte a due strade tecnicamente percorribili. Personalmente, sono più favorevole alla situazione attuale. Ma già prevedo il giorno in cui i pedofili appena catturati su Internet (anche grazie alla notoria insicurezza delle sue trasmissioni) scopriranno i programmi di crittografia come PGP e l’opinione pubblica verrà sapientemente informata di questo fatto. Parlare del diritto alla privacy sembrerà favoreggiamento. Concludo riferendo un fatto che può motivare le mie preoccupazioni nei confronti dell’intrusione delle autorità nelle conversazioni private. Il “New York Times” pubblicò il 14 aprile la notizia che due ricercatori di Berkeley hanno “crackato” il metodo di crittaggio dei cellulari GSM – scoprendo che, potenzialmente, le trasmissioni sono insicure e i telefoni sono clonabili. Nel far questo, è stato scoperto che la sicurezza dei GSM, sulla carta altissima, sembra essere stata deliberatamente indebolita in fase realizzativa. Il sospetto di molti addetti ai lavori, supportato da pettegolezzi che da anni circolavano, è che i progettisti abbiano subìto le pressioni di agenzie governative di controspionaggio, per mantenere comunque la possibilità di ascoltare le conversazioni. Non è chiaro se anche programmi di crittaggio per computer ritenuti sicuri (PGP) siano dotati di queste cosiddette backdoor. Non mi sembra onesto, ecco tutto: se la crittografia dev’essere un monopolio di stato, almeno che lo sia alla luce del sole.

* CGIL Nazionale, Ufficio Nuovi Diritti