Un capitolo di Punire i poveri di Loïc Wacquant è dedicato ai “Miti culturali del pensiero unico securitario”. Sono pagine divertenti, di quel divertimento tragico che è il nostro pane quotidiano, che dimostrano la inconsistenza di quei miti e, quindi, di quella cultura e, quindi, di quel pensiero. Tra quei miti la “tolleranza zero”, che si è incarnata come luogo di rivelazione, nella New York di Rudolph Giuliani, che, secondo la vulgata, avrebbe debellato la criminalità in poco tempo. È falso: la diminuzione della criminalità era cominciata prima che arrivasse Giuliani, si è attuata anche là dove sono state praticate politiche opposte, dieci anni prima a New York era stata fatta la stessa politica e l’alta criminalità di quegli anni non era affatto diminuita. Altre erano state le cause della diminuzione della criminalità degli anni ’90 e Wacquant le espone nel dettaglio. La politica di Giuliani aveva solo prodotto, a costi elevatissimi, più polizia, più discriminazione e conflitto (per le aree della povertà ovviamente). Il mito culturale della “tolleranza zero” si inserisce in un altro: quello della “finestra rotta”, secondo cui sono i piccoli gesti di disordine, come una finestra rotta in una casa, che portano al manifestarsi della criminalità più grave: e allora perseguire come reati, con “tolleranza zero”, la miriade di condotte disordinate conseguenti al degrado degli ambienti di vita, serve ad evitare il peggio. Nessuna ricerca empirica ha mai dimostrato questo: si tratta di una favola costruita da un politologo ultraconservatore e da un poliziotto, entrambi con il pallino sociologico, raccontata in una rivista a grande tiratura e non in uno studio scientifico. Il risultato è che la favola è divenuta l’incubo di barboni, mendicanti, lavavetri e simili di tutto il mondo.
Il richiamo alla certezza della pena è nato, sempre in ambiente Usa, nella dottrina giuridica, ma, via via che produceva danni e galera, è diventato anch’esso un mito culturale del pensiero unico securitario. Beccarla parlava di “pena certa”, ma lo faceva in un tempo in cui mancavano le regole per definire le pene, la loro durata e le modalità di esecuzione e aggiungeva che come dovevano essere certe, le pene dovevano anche essere miti. Negli ultimi decenni del ’900, si è imposta, in vari sistemi penali, una severa critica alla larga discrezionalità dei giudici nella determinazione e durata concreta delle pene. Negli Stati Uniti, in precedenza, era stato lo stesso giudice della condanna che dava una pena indicativa (da un minimo a un massimo), che i responsabili delle carceri definivano, poi, in concreto secondo la risposta dei detenuti agli interventi riabilitativi. Per le nuove teorie, il giudice doveva condannare, invece, ad una pena determinata, osservando un rigoroso prontuario corrispondente ai reati commessi. Dentro la nicchia del discorso degli esperti, poteva prosperare, così, il discorso securitario e, a rimorchio, le scelte politiche, ormai in auge nel corso degli anni ’70: si considerava l’intervento riabilitativo in carcere come privo di efficacia e produttore soltanto di un deprecabile lassismo e si rilegittimava in pieno il carcere. Se ne era detto tutto il male possibile e, invece, ora il carcere diventava la pena affidabile, l’unica che metteva fuori corso il nemico sociale. La pena doveva essere certa: e così i detenuti da 204.000 nel 1973 sono arrivati a 2.300.000 nel 2005, più di dieci volte tanto, e crescono ancora. Strada facendo, si è arrivati ad enunciare la regola che, al terzo reato, anche se poco grave, la carcerazione diventa perpetua: tre sbagli e sei fuori, ovvero dentro, in carcere. Pena certa, dunque, ma, dimenticando Beccarla, anche sproporzionata e sempre più estesa inoltre a condotte piuttosto indicative di precarietà di vita, che criminali.
Da noi, la pesantezza delle pene del codice Rocco, ha determinato una serie di interventi del periodo democratico, che ha portato una forte discrezionalità del giudice della condanna. Inoltre l’Ordinamento penitenziario ha previsto modifiche della pena inflitta e delle modalità esecutive della stessa: alla rigidità della pena inflitta in sentenza è stata sostituita la flessibilità, coperta costituzionalmente dalla sentenza 204/74 della Corte costituzionale, riconfermata poi da varie sentenze successive. Ad ogni tentativo di nuovo codice penale, si cerca di ridurre la discrezionalità dei giudici, sia di quelli del processo, che di quelli di sorveglianza durante l’esecuzione, convinti che debbano recuperarsi criteri più certi nella determinazione della pena e della sua durata. Con una notevole indifferenza alla proporzionalità della pena rispetto ai fatti, volendo avere più certezza della pena, si pensa a previsioni penali sempre più numerose, sempre più detentive, sempre più severe: come negli Usa, questo è successo ovunque. La promozione a mito culturale della certezza della pena fa sì che questa venga invocata in modo frequente e approssimativo, imponendola anche come obbligo per la custodia cautelare dei giudicabili, contro il principio costituzionale secondo cui nessuno può essere considerato colpevole prima della condanna definitiva. È contestata anche la flessibilità della pena durante la esecuzione e invocata, contro le affermazioni della Corte Costituzionale, la riduzione delle misure alternative, necessarie in relazione alla finalità rieducativa/riabilitativa/risocializzante che la pena deve avere ai sensi dell’art. 27 della Costituzione. E si ricordi che ripetute ricerche confermano che le misure alternative alla detenzione riducono la recidiva tre/quattro volte più efficacemente della pena eseguita in carcere (dopo sette anni dalla conclusione della misura alternativa, la recidiva è inferiore al 20%; dopo lo stesso tempo dalla conclusione della pena in carcere, la recidiva è quasi al 70%).
Dobbiamo sottostare ai miti culturali del pensiero unico securitario, tolleranza zero, finestre rotte e certezza della pena? Intanto, chiariamo che quei miti nascondono l’inconsistenza delle ragioni o, meglio, la presenza di cattive ragioni. Mettiamo in fila i punti salienti della situazione. Primo: le politiche securitarie e carcerarie sono diventate, come dimostrato nelle recenti elezioni, la questione centrale della politica generale, che pure di cose a cui pensare ne avrebbe tante altre. Secondo: il carcere cresce a dismisura e si riempie di stranieri, di tossici, di soggetti psichiatrici e socialmente abbandonati, non della criminalità più grave che gode di notevole disattenzione politica.Terzo: a un carcere pesante corrisponde uno stato leggero, anche per la necessità di spostare risorse sui sempre più estesi e costosi interventi polizieschi e carcerari: ci perdono gli interventi sociali, sostituiti dal carcere come “non risposta” ai problemi che si pongono. Quarto: se è la percezione dell’insicurezza che conta, notiamo, intanto, che essa subisce continui rilanci: fra i media e le grida politiche e legislative, quella percezione è entrata in una spirale di crescita inarrestabile, che è inevitabilmente arrivata anche ai pogrom. Quinto: ma se si continua a guardare solo alla percezione, i problemi reali non verranno mai affrontati e così puntualmente accade: repressione, carcere, espulsioni rilanciano le pulsioni antisociali e trasudano razzismo da ogni parte, ma peggiorano soltanto la situazione rendendo più gravi ed acuti i conflitti. Sesto: gli allontanamenti, gli sgomberi e le ruspe che sono l’immagine brutale ed efficace di questa politica, non suscitano reazioni, ma, invece, sempre più spesso, applausi: come dicevano le vecchie canzoni, pietà l’è morta e dietro la morte della pietà c’è il considerare l’altro come non-persona, c’è la disumanizzazione, che si coglie come “cifra” del tutto.
Tento una sintesi, che non credo molto azzardata: dalla convinzione tatcheriana che non esistesse una cosa che si chiama società siamo arrivati alla fine del sociale, con i principi che lo hanno accompagnato: non è la fine della storia, ma il collasso delle regole che ci siamo dati. In questa fase, le comunità si ritrovano per fare fuori il diverso, ma superato questo momento, gli appartenenti a quelle comunità si guarderanno negli occhi dei compagni e non ci troveranno alcuna buona intenzione. Nel nostro mondo, accanto all’inquinamento ambientale, esiste un inquinamento sociale, entrambi letali.
Sandro Margara