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Non si giudica una legge (solo) sulla carta, a partire da quanto è scritto nel suo testo, ma dalla prassi, a partire da quanto accade nella realtà giudiziaria di ogni giorno. Prendiamo il caso dell’affidamento al servizio sociale per tossicodipendenti (art. 94 e dintorni del Testo Unico sugli stupefacenti). È disciplinato da un gruppo di norme caratterizzate da un massimo di discrezionalità unito a un minimo di certezza (o di scientificità): miscela perfetta per manifestare quel fenomeno che Foucault chiamava il “grottesco” del potere. L’ultima formulazione di queste norme, realizzata dalla “riforma” Fini-Giovanardi, costituisce l’estremo retorico intervento su un testo tormentato sin dal suo primo apparire, oltre trenta anni fa. In teoria l’affidamento al servizio sociale (come ogni misura alternativa alla detenzione) dovrebbe essere un rimedio al danno causato dal carcere. Suo presupposto è che il carcere possa essere un danno per chi ha iniziato o intenda iniziare un programma di disintossicazione. Uscire dal carcere può significare allora guarire dalla dipendenza e diminuire al contempo il rischio di recidiva criminale. Descriviamo il meccanismo sulla base del testo della legge.

  1. Il periodo di pena detentiva che può essere scontato in affidamento varia da sei a quattro anni secondo il tipo di reato commesso. Se il reato rientra nell’elenco dei reati ostativi (art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario) l’affidamento può coprire solo quattro anni di pena. I reati ostativi sono un insieme piuttosto eterogeneo e molto diffuso che va dall’associazione mafiosa alla rapina aggravata. Perché una rapina sia aggravata è sufficiente rapinare dieci euro usando un taglierino come arma.
  2. Alla domanda di affidamento va allegato un programma, concordato con le strutture pubbliche (Sert) o con strutture private autorizzate, idoneo al recupero e accompagnato da un certificato di tossicodipendenza.
    Primo stadio. Se la pena non è stata ancora eseguita, la condanna non riguardi un reato ostativo e non sia superiore a sei anni, la domanda di affidamento e la documentazione può essere presentata, al momento di emissione dell’ordine di carcerazione, al pubblico ministero, che sospende l’ordine di carcerazione fino a quando il Tribunale di sorveglianza non si sia pronunciato sulla richiesta. Questo meccanismo non opera quando la condanna riguardi un reato ostativo, o quando, semplicemente, al momento dell’emissione dell’ordine di carcerazione, l’interessato si trovi in custodia cautelare in carcere. In tutti questi casi l’ordine di carcerazione viene eseguito e la domanda di affidamento dovrà essere presentata solo dopo essere entrati in carcere. Il carcere è un luogo in cui, notoriamente, è facile entrare, ma da cui è difficilissimo uscire. Molto più difficile dopo la riforma Fini-Giovanardi.
    Prima della riforma il detenuto poteva uscire, provvisoriamente, dal carcere semplicemente presentando la domanda di affidamento e la relativa documentazione, in attesa della pronuncia del Tribunale di Sorveglianza. Sulla domanda di scarcerazione provvisoria decideva il pubblico ministero, come organo puramente amministrativo, senza potere discrezionale, con un semplice controllo sul rispetto dei limiti di pena prescritti dalla legge. Dopo la riforma tutto è più difficile. La domanda di sospensione della carcerazione viene valutata dal magistrato di sorveglianza con ampi margini di discrezionalità. La legge gli consente di decidere sulla base di criteri molto elastici demandando al detenuto l’onere di provare cose e circostanze impossibili da provare. Almeno secondo la logica e il comune buon senso. Questi deve infatti fornire “concrete indicazioni” sulla “sussistenza dei presupposti per l’accoglimento della domanda”.
    Quando si è in presenza di tali “concrete indicazioni”? È impossibile dirlo. Mentre è evidente che il giudizio del magistrato sarà influenzato dalle proprie personali convinzioni sulla utilità dei programmi di recupero, dei Sert, delle comunità. Sulla preferibilità del carcere alla libertà ecc. Ma non è tutto. Il detenuto deve provare anche “il grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione”, e cioè quello che è il presupposto stesso dell’istituto giuridico dell’affidamento. L’affidamento come istituto giuridico esiste infatti perché il legislatore, a monte, ha già rilevato che in determinati casi il carcere è un rimedio peggiore del male. Ma essendo per l’appunto una valutazione che solo il legislatore può compiere, come è poi concepibile che questo presupposto diventi l’oggetto di una prova che dovrebbe essere fornita dallo stesso condannato? Questi deve provare, infine, che non vi sono “elementi tali da far ritenere il pericolo di fuga”. Solo quando tutte le condizioni elencate nell’articolo di legge sono presenti, il magistrato accorda la sospensione dell’esecuzione.
    Secondo stadio. Si passa poi, con la sospensione o senza, al giudizio vero e proprio del Tribunale di Sorveglianza. Anche nel testo riformato la legge assegna al Tribunale il compito di verificare che lo stato di tossicodipendenza o “l’esecuzione del programma di recupero” non siano “preordinati al conseguimento del beneficio”. Mentre è comprensibile la prima disposizione, volta ad accertare che qualcuno non abbia costruito ad hoc una condizione di tossicodipendenza, semplicemente assumendo stupefacenti prima di un’analisi clinica per poter accedere al beneficio, la seconda disposizione, relativa all’inizio del programma, si presenta quanto mai problematica. Essa riguarda il caso di un detenuto effettivamente tossicodipendente il quale abbia però un atteggiamento “opportunistico” verso il beneficio stesso. Secondo l’esigenza “puritana” del legislatore, solo un programma di recupero che io avrei comunque svolto, anche prescindendo dal mio attuale stato di condannato o di detenuto, manifesterebbe quella che kantianamente si definirebbe come una “volontà buona”. Se è invece la mia condizione di condannato o di detenuto a farmi riflettere sulla opportunità di seguire un programma, di chiudere con la dipendenza, di uscire dal circuito mortale della droga, la mia volontà non è “buona” bensì opportunistica e, come tale, non va presa in positiva considerazione “ai fini del conseguimento del beneficio”. Ma tant’è. Di “benefici” si tratta, e non certo di diritti. E in ossequio ad un rituale che evoca molto da vicino quelli pre-moderni per la concessione di una qualunque grazia sovrana, l’arbitrio del legislatore e poi quello degli uomini che tradurranno in concreto la volontà della legge, manifesta, con queste norme, il suo massimo splendore.