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A leggere i giornali, sembra che alcuni nostri vicini europei (Francia e Gran Bretagna) si accingano ad adottare, o già abbiano varato, programmi e misure variamente colorate di (nuova) repressione nei confronti della delinquenza giovanile. Tony Blair apre “prigioni-colleges” (progettate già dai conservatori) e sembra favorevole ad abolire il limite della responsabilità penale, ora fissato a 14 anni; in Francia si discute di riattivare norme del codice penale che prevedono sanzioni (non solo pecuniarie) per i genitori di bambini che commettono crimini. Insomma, l’epoca della “prevenzione”, della “diversione”, in una parola di tutti quei discorsi e misure, legate alla cultura dello stato sociale, tendenti a minimizzare l’intervento della giustizia penale sui minorenni, sembra ormai tramontata.

Non è facile commentare puntualmente notizie di eventi avulsi dal contesto culturale e politico in cui hanno luogo: l’allarme sociale attorno alla criminalità, ciò che della “criminalità” è più temuto, varia da contesto culturale a contesto culturale. Un mio amico, sociologo inglese che da tempo vive e lavora in Italia, sostiene per esempio che l’enfasi britannica sulla delinquenza giovanile – la percezione di essa come problema sociale primario – ha a che fare anche, se non soprattutto, con la curvatura fortemente individualistica della cultura britannica stessa. I figli, i giovani, sono spinti ad essere autonomi, e responsabili di se stessi, prima possibile. Ciò accentua e sottolinea le differenze e le distanze generazionali, alimentando sia le aspettative di autonomia che le paure della stessa da parte degli adulti.

In Italia, è noto, la delinquenza giovanile non ha (finora) mai assunto le caratteristiche di “problema sociale”. “Criminalità”, in Italia, è parola (e problema) che evoca piuttosto la criminalità organizzata, oggi l’immigrazione. Ma le notizie cui prima si accennava sembrano altresì in contraddizione con la discussione in atto in buona parte dell’Europa continentale (e le misure previste e in molti Paesi tentate) circa l’opportunità di intervenire sulla “delinquenza giovanile” attraverso misure “riparative”, piuttosto che repressive o, come in anni passati, terapeutico-riabilitative. Mediazione, obblighi di fare, sanzioni che si estrinsecano in lavori socialmente utili, e così via, segnalano il passaggio all’adozione di un paradigma che si innesta sulla responsabilità-responsabilizzazione piuttosto che sulla rieducazione e l’assistenza. È un passaggio discorsivo di grande interesse: indica non tanto e non solo il fallimento dei progetti “riabilitativi” (in molti casi, e segnatamente in Italia, questi progetti non hanno trovato vera traduzione pratica, ma hanno invece legittimato prassi giudiziarie efficaci nell’allontanare dal penale la gran parte dei minorenni autoctoni – oggi, soprattutto nel Centro-Nord, i clienti del sistema penale giovanile sono pressoché tutti stranieri), quanto il riemergere potente sulla scena della crisi dello stato sociale del tema della responsabilità individuale. È un tema, questo, suscettibile di interpretazioni ambivalenti e contraddittorie: per un verso, come si diceva, alimenta il dibattito sulla “riparazione”; dall’altro, tuttavia, rimanda al penale, al suo linguaggio e alla sua logica, come il luogo principe in cui la responsabilità è individuata e attribuita. La “responsabilità” appare un bene scarso: proliferano sempre di più agenzie, pubbliche e private, che offrono di insegnare agli individui a essere “autonomi” e “responsabili”, a gestirsi i conflitti in proprio, a far da sé, ecc. Questa ritirata dello stato “paterno” ha risvolti inquietanti, tuttavia, quando il richiamo alla responsabilità individuale legittima l’abbandono e la messa in sordina della responsabilità collettiva (spesso declinata oggi come “solidarietà”: qualcosa di gratuito, dunque, piuttosto che dovuto).

L’abbandono di fatto e l’enfasi retorica sulla responsabilità individuale non possono che appiattire quest’ultima sulla responsabilità penale: come quella dei genitori, in Francia, o dei bambini, in Inghilterra.

Se le “soluzioni” penali e/o custodialistiche lasciano come minimo perplessi è anche perché definiscono il problema sulla base dei suoi “sintomi” ultimi: la commissione di un reato. Allora, le “prigioni-colleges” inglesi e le sanzioni francesi ai genitori appaiono come alternativa all’abbandono, ai fallimenti dell’assistenza, delle politiche sociali, della scuola. Soprattutto le prime, stando ai resoconti giornalistici, non sembrano poi neanche così ignobili. Alla fine, sembrano ricalcare i modelli delle public schools (e di queste sono pure più costose, connotandosi dunque, si può prevedere, come un esperimento per pochi). Ma poco possono, queste “soluzioni”, se la popolazione di bambini con cui hanno a che fare, di bambini di cui ci si preoccupa, di cui e per cui si ha paura, è figlia del disagio sociale, della debolezza familiare, dell’emarginazione culturale. Tutto questo è abbastanza ovvio. Siamo forse semplicemente in presenza di un’ennesima oscillazione (discorsiva, prima ancora che fattuale) del pendolo: a fasi variamente caratterizzate da una riduzione del penale, succedono fasi di ri-enfatizzazione del penale stesso, stavolta agevolate, come dicevo, dalla forte pregnanza, a tutti i livelli, del paradigma della responsabilità-responsabilizzazione. Ma non si può indurre responsabilizzazione con sentenza penale, e si può fortemente dubitare che la si possa produrre in regime di privazione di libertà.

* Docente di Sociologia del diritto, Università di Camerino