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Il decreto della ministra Turco, che permette di affidare agli utenti i farmaci agonisti oppiacei, come il metadone, per un periodo di trenta giorni suscita dibattito. Comincio con una premessa: nel mio lungo impegno per la tutela della salute delle persone tossicodipendenti, vi è un pensiero a cui sono sempre stato particolarmente legato: far percepire che il consumo di stupefacenti e le condizioni di dipendenza non sono accidenti occasionali, fenomeni straordinari, eventi drammatici, ma sono una delle componenti patologiche della odierna complessa e contraddittoria organizzazione sociale. Una delle tante “normalità” del pensiero unico liberista che ha fatto diventare il consumismo il motore di tutta la società. Perché dunque considerare che il consumo di qualsiasi sostanza psicoattiva legale o illegale sia qualcosa di avulso da tale cultura?
Alcol, tabacco, droghe, psicofarmaci, doping, comportamenti compulsivi: l’aiuto chimico e farmacologico per accrescere le capacità prestazionali, per aumentare la concentrazione o l’attenzione, rientra nelle normali abitudini della maggioranza delle persone.
Ma ogni nostro abuso ha il suo strascico di disagi o disturbi e talvolta i danni che ne derivano richiedono uno specifico intervento sanitario. La cura medica in quanto tale non sradica la spinta a ricorrere all’uso di sostanze ma può concorrere a frenare una deriva, a creare spazi e tempi necessari per affrontare quel condizionamento psichico che la continua induzione chimica a dare il meglio di sé ha creato.
Con il decreto Turco si è di fatto preso atto che il trattamento delle persone tossicodipendenti sta uscendo dal limbo delle sperimentazioni, dei tentativi una-tantum (le magiche disintossicazioni rapide o le comunità salvifiche) per entrare nella maturità degli interventi sanitari o socio-sanitari che si sono dimostrati efficaci: i trattamenti con metadone a medio e lungo periodo (meglio se integrati da interventi di sostegno psicologico e sociale) trovano nella letteratura scientifica crescenti conferme. Dare però continuità e stabilità al trattamento non si concilia con la frequentazione quotidiana di un ambulatorio, col risultato, tra l’altro, di rinforzare lo stigma del “diverso”, del drogato irrecuperabile, e di ostacolare la ripresa dei normali ritmi di lavoro, di studio, di relazioni famigliari e sociali: tutte condizioni necessarie per ridimensionare il significato assegnato alle sostanze e provare quindi a liberarsene definitivamente.
Il decreto non introduce niente di nuovo, solamente specifica che le disposizioni introdotte dalla Fini/Giovanardi (30 giorni, ricette, ecc.) si applicano non solo alla “prescrizione” ma anche all’affidamento: questa pratica, seppure mai vietata, era sempre rimasto “grigia” con il rischio di esporre singoli operatori alla discrezionalità di qualche magistrato o carabiniere che la pensava al contrario.
Siamo vittime di una logica settoriale? Non sappiamo confrontarci con la complessità del problema? Gli interrogativi di Luigi Cancrini (L’Unità, 17/12/07) non ci lasciano indifferenti, ma ne avanzo altri: non è che in nome della complessità non diamo poi risposte ai problemi specifici di chi vive una condizione di dipendenza? Che in nome della globalità banalizziamo il lavoro dei Sert e permettiamo una lettura positiva indifferenziata delle comunità terapeutiche? (Alcune marciano verso una forte qualificazione terapeutica ed altre continuano ad essere puri luoghi di contenimento). Non è che lasciamo campo libero ad ogni bizzarria etichettata come psicoterapeutica senza un forte ancoraggio alla verifica di efficacia dei trattamenti?
Certo, avremmo bisogno di un radicale rinnovamento della legislazione, ma nell’attesa che governo e parlamento accelerino una riforma non più rinviabile, il ruolo di un ministro non è quello di stare alla finestra, ma di affrontare i problemi che rientrano nella sua capacità d’azione.