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È di questi giorni la notizia che i ricercatori Usa hanno scoperto il Gch1, il gene del dolore. La notizia è stata data giustamente con rilievo dai mezzi di informazione perché si tratta di una grande scoperta in grado, in prospettiva, di controllare il dolore non cancellandolo, dal momento che è un campanello di allarme necessario per segnalare eventuali patologie, ma neppure subendolo passivamente e men che meno accettandolo come fosse un “dono” di dio o del destino. Se la ricerca statunitense ha dedicato tempo e denaro a questa questione, è segno che la ritiene assai rilevante. Da sempre esiste un farmaco che, nella più minimalista delle ipotesi, si può definire un “antidolore” perché è in grado di attenuare notevolmente, fin quasi a cancellarli, gli effetti collaterali di chemioterapie o dei farmaci per l’Aids. In più, può distendere la muscolatura contratta di malati di gravi patologie come la sclerosi multipla fin quasi, in molti casi, a ridargli movimenti o attività che non potevano più svolgere. Permette a un epilettico di non perdere la conoscenza e ha prolungato la vista a molti malati di glaucoma. Eppure, se non in ristrette cerchie, questo “farmaco” non è oggetto di interesse da parte dei ricercatori. Si tratta della cannabis indica che ha finalmente fatto il suo ingresso nel dibattito politico e scientifico ed è stato “accolta” dal mondo della medicina anche in Italia grazie a un pugno di tenaci e impazienti pazienti e a qualche orecchio istituzionale un po’ attento. Così, dopo la mozione, approvata lo scorso giugno alla Regione Lazio, e dopo la lettera che il ministero della sanità ha inviato, il 3 ottobre, a tutti gli assessorati e le Asl per facilitare l’acquisto del farmaco, ecco che il ministro della salute riesce a rompere il muro di diffidenza e indifferenza del governo. Il disegno di legge farà, dunque, finalmente il suo ingresso in parlamento ma non sarà una passeggiata, stretto tra gli steccati ideologici delle destre e gli opportunismi di alcune “sinistre”. Probabilmente ci vorrà del tempo a causa dell’uso strumentale che questo tema suscita, ma un diaframma culturale si è definitivamente rotto e un rovesciamento del paradigma si è prodotto. Per non perdere tempo (di mezzo, non dimentichiamolo, c’è la qualità della vita, se non la vita stessa, di molti ammalati) alcuni consiglieri della Regione Lazio (prima firmataria la sottoscritta) hanno presentato una proposta di legge sull’uso terapeutico della cannabis che potrebbe fare da apripista e potrebbe rappresentare un “test” politico nazionale. Si tratta di una proposta asciutta che non si propone di diventare una legge mascherata dell’antiproibizionismo, anche se i devastanti effetti della legge Fini-Giovanardi stanno producendo enormi costi sociali. Non vuole essere una bandiera per due ordini di ragioni: perché la nuova politica della partecipazione che ci ha fatto lavorare assieme con i cittadini non si costruisce con scorciatoie e sotterfugi e perché innanzitutto i malati hanno il diritto di essere curati.