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Stefano Cucchi avrebbe scritto una lettera prima di morire, mentre si trovava nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini. Una missiva indirizzata, forse, alla Comunita’ di recupero “Ceis”, ma mai spedita. La prova dell’esistenza sarebbe nel verbale della scatola che conteneva gli oggetti personali che il ragazzo – morto lo scorso ottobre in carcere – aveva con se’ in ospedale. Di quella lettera, nel successivo verbale redatto dal carcere di Regina Coeli e ritirato insieme alla scatola dalla famiglia, non c’era pero’ piu’ traccia. La “scomparsa” del documento e’ stata confermata dalla sorella Ilaria, nel corso di una conferenza stampa al Senato, insieme a Luigi Manconi, presidente del Comitato per accertare la verita’ sulla morte di Stefano Cucchi e ai legali della famiglia, Fabio Anselmo e Alessandra Pisa. I fatti riferiti da Ilaria sarebbero confermati da una testimonianza: mentre Stefano si trovava ricoverato al Pertini il vicesovraintendente del reparto detenuti ha confermato di aver fornito al ragazzo il materiale necessario, compreso un francobollo, e di averlo visto scrivere. “Noi non vogliamo accusare nessuno – ha spiegato Manconi -, ci limitiamo semplicemente a far notare che quella lettera era tra gli oggetti personali di Stefano in ospedale e che, al momento del ritiro da parte dei familiari di quegli stessi oggetti a Regina Coeli, quella lettera non c’era piu'”.

Questa, ha aggiunto l’avvocato Anselmo, “e’ la dimostrazione del fatto che Stefano non voleva morire e che ha cercato di mettersi in contatto con l’esterno”. La conferenza stampa e’ stata convocata, come hanno ribadito i promotori, per evitare che in questa fase “delicata” di indagine, “si possano mettere in atto tentativi di manipolazione della verita’ attraverso la diffusione di notizie poste al di fuori del contesto generale”. La vicenda risale allo scorso ottobre: Stefano Cucchi, un geometra di 31 anni, viene arrestato per possesso di droga. Muore dopo una settimana nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini di Roma. L’inchiesta giudiziaria, parallela a quella interna portata avanti dal Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), e’ stata avviata con l’obiettivo di chiarire quali sono le cause che hanno portato al decesso del ragazzo.
I familiari di Stefano hanno da sempre sostenuto che a provocare la morte sono stati alcuni pestaggi delle forze dell’ordine in sorveglianza. Oggi “per evitare manipolazioni” sono state date nuove informazioni sulla vicenda.

“Un consulente della procura che parla di lesioni non mortali non chiarisce i fatti – ha spiegato l’avvocato Anselmo -. Anche se le lesioni erano non mortali, la Cassazione ha stabilito che se la negligenza dei medici avesse portato al decesso, i responsabili delle lesioni sarebbero colpevoli di omicidio preterintenzionale. Mentre i dottori di omicidio colposo. Ora – ha aggiunto il legale – dire che le fratture risalivano a prima dei fatti, con un quadro clinico generale compromesso a causa dei colpi ricevuti che compare dagli accertamenti autoptici, ci sembra effettivamente troppo”. Manconi ha riferito di essere a conoscenza di altri dati: “Da fonti attendibili so che la Procura ipotizza la possibile contestazione di falso materiale e falso ideologico ai responsabili della stesura di alcune delle cartelle cliniche del ragazzo mentre era ricoverato in ospedale”. Dall’avvocato Anselmo, infine, una considerazione “da uomo”, non da legale: “Stefano non voleva morire. Questa cosa non doveva nemmeno essere ipotizzata”.