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“Questa sentenza sottolinea chiaramente quanto sia stata importante l’opera di depistaggio attuata in fase di indagine”. È il commento a caldo di Patrizia Moretti alla lettura delle motivazioni della sentenza di appello che ha confermato la condanna dei quattro poliziotti a tre anni e mezzo per l’omicidio colposo del figlio, Federico Aldrovandi.

Le 233 pagine depositate nella cancelleria della Corte di Appello di Bologna, nel rispecchiare in buona parte i contenuti della condanna di primo grado, dipingono anche un quadro poco gratificante per parte della questura di Ferrara, che “ha avuto una parte importante nell’indagine e nel processo – aggiunge la madre del ragazzo -, nel quale abbiamo assistito a testimonianze false, inattendibili, lacunose, fuorvianti, come riconosce la corte d’appello”.

Quella ‘parte importante’ viene definita dal giudice Daniela Magagnoli con “manipolazioni ordite dai superiori” e “attività di falsificazione e distorsione dei dati probatori poste in essere sin dalle prime ore successive all’uccisione di Aldrovandi da parte dei responsabili della Questura di Ferrara e degli stessi imputati”.

Non solo. A Paolo Forlani, Enzo Pontani, Monica Segatto e Luca Pollastri viene rimproverato il fatto di “non avere voluto squarciare il velo della cortina di manipolazioni delle fonti di prova, tessuta sin dalle prime ore di quel 25 settembre”.

Sferzata la questura, la sentenza si concentra sui poliziotti intervenuti in via Ippodromo, “pubblici ufficiali, privi di precedenti disciplinari, portatori di un ben diverso onere di lealtà e correttezza processuale rispetto ad un imputato comune” che “avrebbero dovuto portare un contributo di verità”.
Questo per quanto riguarda la condotta avuta dopo la morte del 18enne. La notte del 25 settembre 2005, invece, i quattro agenti hanno “scelto di porre in essere un’azione di contenimento e di repressione non necessaria nei confronti di un soggetto che aveva invece bisogno di trattamento terapeutico”.

Quell’intervento, secondo i giudici di secondo grado, fu costellato di errori. A partire dal non aver chiamato un’ambulanza per un “ausilio di carattere medico psichiatrico che si imponeva per la presenza di un soggetto in fase di agitazione acuta” e nel “non avere interrotto l’azione nel momento in cui era apparso chiaro si stava trasformando in un autentico pestaggio, nell’avere accettato quella violenza gratuita, assolutamente vietata dalle regole”.

Ognuno di loro, infatti, secondo la corte d’appello, “ha “ingaggiato” senza reale necessità che non fosse, evidentemente, quella di vendicare l’affronto subito poco prima da Pontani e Pollastri, la seconda colluttazione; ognuno di loro, infatti, ha percosso con i manganelli o a calci Aldrovandi, anche dopo che era stato atterrato; ognuno di loro, infatti, non ha richiesto l’invio di personale medico prima e invece di “bastonare di brutto per mezz’ora” Aldrovandi, ma soltanto dopo averne vinto con violenza la resistenza”.

Infine, la gravità del fatto è “accentuata dal discredito che la condotta dei quattro appellanti ha comportato per il corpo di Polizia cui – ancora – essi appartengono, implicitamente riconosciuta con il tempestivo e pingue risarcimento riconosciuto in via transattiva dal Ministero dell’Interno prima della celebrazione del processo d’appello”.