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Ha ragione Stefano Anastasia (Il Manifesto, 30 settembre): «Bisognerebbe liberarsi dalla ingenuità (o dalla malafede) di chi pensa che le incarcerazioni e il tasso di detenzione siano il frutto di congiunzioni astrali alle quali non possiamo sottrarci: e chi lo ha deciso (…) che il possesso di sostanze stupefacenti è causa di procedimento penale e incarcerazione? e chi lo ha deciso che il carcere dovesse tornare a essere l’unica forma di pena per migliaia di detenuti ». Il problema sta esattamente qui. Se non rimuoviamo il pensiero dominante (ormai quasi unico anche a sinistra) sulla pena, sul carcere e sulla loro ineluttabilità i detenuti continueranno a crescere a dismisura e insieme – il paradosso è solo apparente – aumenteranno i cori contro il lassismo dei giudici e il senso di insicurezza dei cittadini. Salvo poi – per tacitare una coscienza che qualche volta fa capolino – commuoversi e protestare (non più di una volta su dieci…) per il suicidio in carcere di un ragazzo condannato per il possesso di una dose eccessiva di hashish, di un migrante fuggito dalla fame o – più probabilmente – di un colletto bianco finito in carcere per qualche brutto scherzo del destino. I numeri sono eloquenti. Negli ultimi vent’anni i detenuti sono lievitati dai 25.804 del 31 dicembre 1990 ai 63.993 del 1° settembre 2009. Di questi ultimi, 23.704 (pari al 37%) sono stranieri e 17.270 (27%) tossicodipendenti (così definiti nelle statistiche ministeriali: più verosimilmente assuntori di sostanze). Se poi si guarda ai titoli di detenzione, il 15,2% è detenuto per violazione della legge sugli stupefacenti e il 29,5% per reati contro il patrimonio, mentre solo il 16,5% è in carcere per delitti contro la persona e il 2,6% per associazione di stampo mafioso. Triste necessità – si potrebbe dire – ma non scelta, siccome conseguente all’aumento dei reati e alle caratteristiche dei loro autori (determinate anche dalle condizioni sociali, ma non esorcizzabili). Non è così. Il picco dei delitti si è avuto, infatti, nel nostro Paese – secondo i dati del ministero dell’interno – nel 1991; la curva dei reati, almeno di quelli contro la persona, non è in crescita, e mostra talora una parabola discendente; i delitti connessi con l’uso degli stupefacenti e con l’immigrazione irregolare (o determinati da tali fenomeni) sono, in gran parte, artificiali, cioè provocati da una normativa improntata al più radicale e ottuso proibizionismo, il cui carattere criminogeno è ampiamente provato dalla storia; il sistema penale prevede, di fatto, processi più rapidi e meno garantiti per la criminalità di strada che per quella dei colletti bianchi e forme di fuoruscita dal penale per i reati di quest’ultima categoria e non per gli altri. Ciò che accade è, dunque, il proporsi in maniera sempre più netta del carcere come contenitore di marginalità (in parte significativa a prescindere dalla gravità del reato commesso). Il fatto è che, mentre l’emarginazione cresce, la guerra alla povertà – che ha caratterizzato lo Stato sociale – lascia il posto alla guerra ai poveri, destinati a essere spinti altrove: in un lontano invisibile o, se ciò non è possibile, in carcere.
Non è sempre stato così. Persino un sistema penale di stampo autoritario come quello del codice Rocco (rimasto in vigore, sul punto, fino alla legge n. 1041 del 1954), prevedeva per gli stupefacenti una disciplina penale simile a quella delle bevande alcoliche e del tabacco, punendo come contravvenzioni solo «l’essere colto, in luogo pubblico, o aperto al pubblico, o in circoli privati, in stato di grave alterazione psichica per abuso di sostanze stupefacenti» e «la consegna da parte di farmacisti (o assimilati) di sostanze velenose o stupefacenti, anche su prescrizione medica, a persona minore degli anni sedici». E ancora cinque anni fa, nel 2004, le misure alternative al carcere erano 50.228 a fronte delle 10.737 di quest’anno. E non si stava peggio! «Liberarsi della necessità del carcere» – per usare un dimenticato slogan di molti anni fa – è possibile. Ma occorre, prima di tutto, ricominciare a pensare.