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Questa presente è una stagione crudele in cui domina il diritto penale dell’emotività. Esso alimenta equivoci. Il più pericoloso risiede nell’equazione tra certezza della pena ed esecuzione della misura privativa della libertà in carcere. Eppure, chi conosce il carcere per ragioni professionali o di studio sa  che la pena intramuraria è criminogena. Determina spinte antitetiche rispetto al comando dell’articolo 27 della Costituzione, secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. La permanenza in carcere recide i legami sociali di appartenenza e indirizza alla recidiva. Questo banale rilievo trova un moltiplicatore severo nel volto che il carcere sta assumendo negli ultimi mesi. E’ allora inevitabile tornare a parlare della tragica amputazione del corpo di riforme del sistema penitenziario strozzate nella culla, pur dopo essere giunte a un passo da un varo che si attendeva da un quarantennio. Tra le pieghe dei decreti legislativi elaborati dalle Commissioni nominate dall’allora Ministro della Giustizia, vi era un ampio progetto di tutela della salute mentale delle persone sottoposte a pena.

Ed è proprio questa ad essere risultata la più dolorosa tra le soppressioni: quella ai danni di una riforma progressista per cui la migliore cultura giuridica si era spesa senza riserve, dall’indomani del 1978, in cui si abolirono gli ospedali psichiatrici provinciali, fino agli Stati Generali dell’esecuzione penale con cui si intendeva umanizzare e sviluppare la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975.

Di fronte ad una situazione disumana dimostrata dai dati relativi alla sofferenza psichica nelle carceri, si rivela dirompente e lancinante  l’incompatibilità tra salute mentale e stato di cattività. Per sanare questa ferita,  le Commissioni ministeriali avevano elaborato tre linee di intervento: il rinvio facoltativo della pena nei riguardi di persone affette da gravi infermità psichiche; l’ideazione di nuovi modelli di misure alternative terapeutiche non coercitive; la previsione di sezioni specializzate ad esclusiva gestione sanitaria, per i detenuti con infermità mentale sopravvenuta.

Sarebbe dovuta essere la riforma complementare e di definitivo perfezionamento, dopo la chiusura  degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Ma un tratto di penna è bastato a vanificare uno slancio riformatore che aveva visto partecipi il Consiglio Superiore della Magistratura, la psichiatria di territorio, autorevoli penalisti e costituzionalisti, una vasta rete di giudici di sorveglianza, intellettuali e operatori sociali uniti con l’avvocatura.

Per fortuna si profila, nelle prossime settimane, un’opportunità decisiva per rendere più umano il nostro trattamento penitenziario. La Corte Costituzionale si pronuncerà su una questione di legittimità, sollevata coraggiosamente dalla Corte di Cassazione, in materia di trattamento del detenuto che vive l’esperienza del disturbo mentale. Se la questione prospettata dai giudici di legittimità fosse accolta, si potrà estendere la misura alternativa della detenzione domiciliare in luogo di cura, già ammessa per coloro che soffrono di malattie fisiche, anche ai detenuti affetti da una grave infermità psichica. Si tornerebbe, così, alla preziosa e colta intuizione che fu di Franco Basaglia: non si può curare il disturbo mentale tra le mura delle istituzioni totali. Questa è soltanto una delle molte ragioni per cui guardare con speranza alla decisione della Corte Costituzionale attesa per il prossimo febbraio. In caso di accoglimento della questione, si incrinerebbe il dogma del “tutto dentro il carcere e niente fuori”; si dissiperebbero alcune tra le ombre più inquietanti che percorrono questo nostro inverno segnato dai venti securitari e dal ritorno al cieco sorvegliare e punire.