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Nel settembre scorso è stato assegnato alla Commissione Giustizia del Senato un importante disegno di legge (n.1876), che introduce e regola le relazioni affettive intime delle persone detenute in carcere. L’articolo chiave (art.2) stabilisce che “particolare cura è dedicata a coltivare i rapporti affettivi”, attraverso la possibilità offerta ai detenuti e agli internati di usufruire di “una visita al mese, della durata minima di sei ore e massima di ventiquattro, delle persone autorizzate ai colloqui”. Le visite si svolgeranno in apposite unità abitative all’interno degli istituti, senza controlli visivi e auditivi. Con questo provvedimento, finalmente si concretizza il diritto dei detenuti e delle detenute ad avere rapporti sessuali e affettivi con le persone con cui si è legati/e da relazioni significative: sancito come tale dalla Corte Costituzionale fin dal 1987 (sentenza 581) ed ancora nel 2012 (sentenza 301).

L’appello al Senato è di prestare la massima attenzione a questa proposta, per il merito – trattandosi di diritti fondamentali delle persone- ma anche per la particolarità del percorso con cui è approdata in Parlamento. Come ricordano Stefano Anastasia e Franco Corleone (nel recente volume La prigione delle donne di Susanna Ronconi e Grazia Zuffa, p.151), il testo è stato elaborato nel 2019 dalla Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà e sottoposto alle Regioni perché ne facessero oggetto di iniziativa legislativa in Parlamento. La Regione Toscana è stata la prima a rispondere all’appello dei Garanti, avviando l’iter parlamentare.

E’ dunque un’iniziativa ampiamente partecipata che proviene da organismi di garanzia, di particolare rilievo civile ed etico. E che è stata approvata a livello di Consiglio Regionale toscano, dopo ampia discussione.

Questo sforzo di coinvolgimento di vari livelli istituzionali – oltre che dell’opinione pubblica- è la risposta all’ingiustificabile ritardo del nostro paese nel garantire l’affettività e la sessualità delle persone detenute. Non solo questo diritto è da tempo riconosciuto in quasi tutti i paesi europei (Spagna, Germania, Francia, Austria, Svizzera, tanto per citarne alcuni); ci sono anche autorevoli pronunciamenti in tal senso, dalla Corte Costituzionale già citata, agli Stati Generali dell’ Esecuzione Penale nel 2016, al Comitato Nazionale di Bioetica col parere del 2013 “La salute dentro le mura” (dove, p.11, si raccomanda di “salvaguardare l’esercizio dell’affettività e della sessualità” nel rispetto del “principio della centralità della persona, anche in condizioni di privazione della libertà”).

Allora, da dove provengono tante resistenze? Da un sotteso “operante dispositivo proibizionista”, come denuncia il giurista Andrea Pugiotto (Giurisprudenza Penale, 2019 2bis), ben radicato nella cultura carceraria corrente. La negazione della sessualità è parte di quella “sofferenza aggiuntiva” (alla privazione della libertà), che non può essere detta ma è largamente esercitata; e che ispira molti dispositivi detentivi di spoliazione identitaria del carcerato/a, imperniati sul corpo asessuato. Si pensi al corpo continuamente esposto allo sguardo dei controllori, corpo denudato e privo di eros. Nel già citato volume, molte detenute raccontano l’ingresso in carcere, l’umiliazione del doversi denudare, il trauma della perquisizione corporale. Lo stesso potenziale controllo visivo continuo sottende la perdita totale, materiale e simbolica, dello “spazio per sé”. Eppure, uno spazio “per sé”, del corpo “per sé”, è fondamentale per “rimanere se stessi e se stesse”: condizione imprescindibile per intessere relazioni valide con l’altro da sé, a sua volta elemento chiave nel processo (costituzionalmente stabilito) di risocializzazione del condannato/a.

L’approvazione rapida di questa legge segnerebbe un passo avanti di civiltà, oltre le specifiche norme; e sarebbe una prova di vitalità per la nostra democrazia parlamentare.