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Discutere di organizzazione dello spazio negli Istituti penitenziari e di architetture possibili per una diversa idea di esecuzione penale è terreno difficile in questo momento. Non solo perché gli spazi vitali minimi vengono a mancare, dati i numeri dell’affollamento in carcere, ma anche perché le velleità edilizie con cui l’amministrazione penitenziaria sembra voler affrontare un problema che ha radici nelle politiche e non già nel mattone, rischiano di far uscire la riflessione dal binario corretto. Se ne parlerà a Firenze, sabato prossimo, in un seminario della Società della ragione su «Gli spazi della pena e l’architettura del carcere» che si terrà nel «giardino degli incontri» che Giovanni Michelucci progettò per il carcere di Sollicciano. E se ne parlerà muovendo dalla relazione fra l’architettura del carcere e il senso in evoluzione della pena, fra lo schema spaziale del contenitore e la concezione che si ha del suo contenuto: sempre l’organizzazione dello spazio fisico è conseguenza e motore del mutamento concettuale di ciò che in esso si realizza. Ne è conseguenza perché avviene dopo la riflessione teorica sui significati e le funzioni del suo contenuto; ma ne è anche consolidamento perché dà al mutamento una connotazione fisica, concreta.
Una caratteristica accomuna i luoghi di pena post-illuministi: la totale visibilità interna e l’altrettanta opacità da e verso l’esterno. Luoghi destinati alla sorveglianza e, quindi, concepiti in modo tale che da uno o più punti sia possibile vedere e controllare le celle, dove i detenuti sono dislocati per la gran parte del tempo quotidiano, e i pochi altri ambienti destinati a funzioni svolte al di fuori di quel ristretto spazio. Ma anche luoghi ove alla visibilità interna corrisponde l’invisibilità dall’esterno e l’impossibilità di vedere il mondo al di là del recinto della segregazione.
Così sono stati disegnati, a partire dalla Casa d’ispezione proposta dal fratello di Jeremy Bentham, molti istituti penitenziari del secolo scorso: un Panopticon, il cui scopo è «tanto più perfettamente raggiunto se gli individui che devono essere controllati saranno il più assiduamente possibile sotto gli occhi delle persone che devono controllarli». È il paradigma del controllo occhiuto in una società razionalmente disciplinare in cui l’assoluta visibilità – o quanto meno la sensazione di essere sotto continua vigilanza – è condizione essenziale per l’esecuzione della propria funzione regolativa. Non è soltanto un modello architettonico, ma una metafora della stessa funzione punitiva. Le varianti sono state diverse, dalla struttura radiale che conservano ancora molti dei nostri istituti, a quella a croce, volutamente evocativa, utilizzata in paesi nordici; a volte addirittura sovrastata da una croce, a ricordare come non solo si contengano i corpi, ma si voglia anche purgare le anime.
Negli ultimi decenni del secolo scorso – e in Italia soprattutto attorno agli anni settanta – invece, la costruzione di nuovi istituti penitenziari ha seguito un modello diverso, quale riflesso delle riforme avviate in vari paesi: lingue di corridoi che introducono a padiglioni con maggiori spazi per la cosiddetta socializzazione, ma anche accentuata distanza tra il luogo della gestione/direzione e quello della detenzione. Una distanza fisica che in alcuni casi è stata anticipatrice di una distanza concettuale. Luoghi comunque un po’ più vari, frutto di concezioni più articolate.
In Italia però il percorso verso spazi architettonici più articolati è stato monco, così come monca è stata l’applicazione della riforma avviata più di trent’anni fa. Non si è voluto andare verso l’ipotesi di uno spazio responsabilizzante, dove i soggetti, sebbene reclusi, esprimano soggettività, svolgendo attività e assumendo compiti volti alla gestione del loro presente. Si è mantenuta invece l’idea di uno spazio ‘infantilizzante’, dove al soggetto è richiesto di obbedire e di recepire ordinatamente quanto a lui fornito e proposto: dal luogo, al cibo, all’attività avviata dal volontariato, alla pratica burocratica che scandisce la quotidianità. Tutto è passività, nulla è organizzazione responsabile. Lo spazio è rimasto così, sebbene fisicamente diverso, un mero contenitore muto, pronto a essere riconvertito come recettore di brande e nient’altro, in caso di necessità. Così sta ora avvenendo.

(Info su affollamento e piano carceri su www.fuoriluogo.it)