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Elena Casetto morì il 13 agosto del 2019, nell’incendio della stanza in cui era rinchiusa, legata al letto. Era ricoverata all’interno del Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (Spdc) dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Ora il PM Letizia Ruggeri conclude le indagini ritenendo responsabili dell’incendio “per imperizia e negligenza” i due addetti al servizio di pronto intervento antincendio dell’ospedale

Occupandomi da molti anni di salute mentale ma anche di gestione del rischio nelle attività sanitarie mi pongo alcune domande. Se è vero che ogni evento avverso origina da una serie di concause organizzative, nel caso di Elena, come possiamo ricostruire la catena degli eventi? Per un corto circuito nella stanza? Per iniziativa della stessa Elena, che sarebbe stata in possesso di un accendino?

Consideriamo quest’ultima circostanza. Elena fu rinchiusa e legata al letto, perché si riteneva che potesse essere di danno a se stessa. Come è potuto accadere che avesse, se dimostrato, un accendino?

Possiamo fare due ipotesi sul perché Elena abbia usato l’accendino: per suicidarsi o per liberarsi delle cinghie di contenzione. In ambedue i casi, è evidente che la presenza di un operatore sanitario nella stanza avrebbe impedito che il fuoco fosse appiccato o si sarebbe potuto soffocare subito.

La seconda domanda riguarda la solitudine di Elena. Nessuno si accorse che Elena stava male e perciò necessitava della presenza costante di un operatore al suo fianco, quantomeno per sorvegliarla se non, come sarebbe stato auspicabile, per darle sostegno e ascolto?

Si dice: “Sono state rispettate le indicazioni che richiedono il monitoraggio ogni 15 minuti”. Questo fa porre una ulteriore domanda, sull’adeguatezza di tali indicazioni. Nel caso di Elena non furono adeguate e dobbiamo chiederci se in realtà non siano state dannose, spingendo gli operatori a osservare le regole piuttosto che Elena, con il suo star male.

Continuando a risalire la catena degli eventi, c’è da chiedersi perché Elena fu isolata e contenuta. La contenzione è ormai da tutti considerata una extrema ratio, solo nei casi di “stato di necessità”, per evitare un danno grave alla persona. Dobbiamo chiederci se davvero sussistessero, all’interno di un servizio con medici e infermieri specializzati nel trattamento del disagio psichico, le condizioni di “forza maggiore” per privare Elena della libertà. La domanda è ancora più pressante, considerato che in quel Spdc risultano nel 2019 ben 300 contenzioni meccaniche nei confronti di 86 persone. Un numero decisamente elevato per giustificarle tutte con lo “stato di necessità”.

Se non esistevano ragioni di necessità per contenere Elena, allora proprio la contenzione sarebbe da collegarsi alla sua morte.

Infine, un’ultima domanda. Elena si era ricoverata volontariamente nell’Ospedale Papa Giovanni XXIII. Quando si ipotizzò la necessità di un Trattamento Sanitario contro la sua volontà, furono preventivamente verificate eventuali alternative insieme a lei o alla sua famiglia?

Il Sistema Sanitario della Lombardia si incardina sul diritto di scelta del cittadino tra diverse opzioni di cura, pubbliche e private. Viene da chiedersi se tale principio sia stato rispettato nel caso di Elena, oppure no. Accade spesso che la scelta non sia concessa alle persone con problemi di salute mentale, quasi fossero cittadini meno uguali e con meno diritti di altri.

Ancora: è stata richiesta una seconda opinione, da parte di un esperto esterno, allo scopo di migliorare nel confronto con il collega il progetto di cura?  È stato richiesto il secondo parere per il TSO, come la legge richiede? Immagino che chi ha svolto le indagini giudiziarie si sia posto queste domande. Sono curioso di conoscere le risposte.