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Ragionando sui casi di Stefano Cucchi, di Federico Aldrovandi e dei molti altri morti di botte, sui massacrati della macelleria di Genova, non molti sanno che questo modo di trattare i cittadini scomodi è uno “stile di lavoro” al quale la nostra forza pubblica è stata e rimane nei secoli fedele. Qui non parliamo delle violenze del regime fascista; né delle cariche selvagge dei celerini di Scelba; né di poche mele marce o schegge impazzite, ma della “ordinaria amministrazione” di una lunga serie di governi democratici, dalla nascita dello Stato unitario a oggi.

Risalendo al secondo dopoguerra, troviamo testimonianze come quella di E.A. nei Racconti siciliani di Danilo Dolci. In base a vaghi sospetti, molti poveracci del tutto estranei a qualsiasi reato venivano regolarmente “interrogati” con metodi Abu Ghraib (o peggio) per poter poi esibire un colpevole al colto e all’inclita, a qualsiasi costo. Ancora più indietro, nei primi anni del ‘900, una relazione di ben 80 fitte pagine pubblicata sulla Rivista Sperimentale di Freniatria (Vol. XXX, Fasc. I-III, 1904), intitolata “Il caso D’Angelo (Morte dopo brevissima detenzione nel carcere – Sospetto di violenze – Delirio acuto – Concorrenza letifera)”, firmata dai periti dell’accusa, analizza un caso di morte violenta a Regina Coeli il 5 maggio 1903.

Giacomo D’Angelo è un giovane marinaio con uno stato di servizio di buon livello prima nella Regia Marina, poi nella marina mercantile. Molti testimoniano del suo “carattere docile”, della sua “assoluta mancanza di scaltrezza che lo rendeva facile zimbello dei suoi amici e dei suoi compagni di lavoro” (un discreto accenno, forse, a un lieve ritardo mentale). Forse gli piace un pò troppo il vino; e a un certo punto, sulla goletta dove è imbarcato, comincia a reagire un pò bruscamente ai compagni di lavoro e al comandante, il quale decide di licenziarlo in tronco e di sbarcarlo allo scalo romano di Ripa Grande. D’Angelo protesta, si dichiara vittima di una ingiustizia. Interviene la Benemerita e il nostro si ritrova a Regina Coeli. Durante il passaggio in Questura, a causa di una omonimia, viene anche accusato ingiustamente di furto, il che non può che esacerbare il suo stato d’animo e rendere più clamorose le sue reazioni.

Dopo un periodo di detenzione relativamente tranquilla, incomincia a dare i numeri. Viene allora sbattuto in isolamento e poco dopo, a seguito di un atto di ribellione, immobilizzato su di una branda con “camicia di forza rimontante sino all’alto del collo con mani conserte al seno mediante fissazione posteriore; ampia fascia passante sull’alto del petto, annodata posteriormente al tronco e legata alla testata della branda; vincoli periascellari; fissazione dei ginocchi; immobilizzazione delle estremità inferiori”: cioè mezzi di contenzione che i periti definiscono brutali, di grave impedimento alla respirazione, addirittura “rifiuto dei vecchi manicomi”. D’Angelo si divincola furiosamente senza sosta, grida a squarciagola “oh Dio, m’ammazzate”, “superiore, scioglietemi, che qua io muojo, non ci posso più resistere!”. Passano e ripassano secondini e medico del carcere, i quali giudicano la situazione normale o almeno non preoccupante. Dopo 48 ore di contenzione, D’Angelo smette di divincolarsi e di urlare; dopo altre due o tre ore viene portato in infermeria; dopo altri 45 minuti muore.

L’autopsia viene eseguita solo dopo riesumazione a molti giorni di distanza, quindi i periti non possono accertare se a monte della sintomatologia neuro-psichica iniziale vi fosse o meno qualche fatto patologico. Ma con chiarezza e durezza si pronunciano sul ruolo, almeno come concause, della contenzione dura e prolungata, delle disastrose condizioni igieniche (il detenuto nelle sue deiezioni, la cella calda e senz’aria), dell’incuria assistenziale, ecc. ecc.. Su questo aspramente si scontrano durante il processo con i periti della difesa, in primis il neurologo Giovanni Mingazzini, il quale sostiene a spada tratta la tesi della morte naturale: sì, proprio lo stesso Mingazzini che qualche anno dopo sarà uno dei primi a indossare la camicia nera e a incalzare i suoi colleghi per una applicazione dura e pura della riforma Gentile nella facoltà medica romana.

Insomma, plus ça change, plus c’est la même chose. Revisionisti, alla carica!