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In questa seconda ondata il virus sta correndo anche in carcere. In pochi giorni personale e detenuti positivi si sono rapidamente moltiplicati, superando di gran lunga i casi registrati nella primavera scorsa. Certo, si tratta in gran parte di asintomatici (anche se non mancano i ricoveri e i primi casi di morte, uno a Livorno e uno ad Alessandria); certo è l’effetto di uno screening più ampio, ma il sistema è di nuovo in sofferenza. Non preoccupa, è chiaro, la distribuzione puntiforme di singoli casi di positività, sintomo della diffusione del virus nella società e indice di un buon funzionamento delle misure di prevenzione, che individuano e isolano all’ingresso i nuovi arrivati positivi al virus. Preoccupano invece i focolai che qua e là si vanno registrando, come a Terni o a Poggioreale, dove il virus entra in sezione e immediatamente si diffonde a decine di detenuti. Era prevedibile, del resto, che fosse così: le carceri non sono solo strutture di vita comunitaria, come le RSA, ma hanno standard igienici di molto inferiori, in barba a previsioni normative disattese in gran parte degli istituti.

Torna, dunque, l’agenda dell’emergenza: svuotare le carceri, assicurare prevenzione e assistenza ai positivi, attività e relazioni affettive alla generalità dei detenuti in condizioni di sicurezza.

Partiamo dall’inizio: ridurre le presenze in carcere durante la pandemia non è la fantasia di un gruppo di abolizionisti, ma una precisa indicazione degli organismi internazionali che si occupano di tutela della salute e di prevenzione di trattamenti inumani in danno dei detenuti. Ridurre le presenze in carcere non significa né adottare provvedimenti simbolici, né – semplicemente – evitare temporaneamente lo storico sovraffollamento delle nostre carceri. Ridurre le presenze in carcere, oggi, significa creare spazi per una gestione efficace della prevenzione e dell’assistenza per quanti resteranno lì dentro. Bene, dunque, il rinnovato appello del Procuratore generale Salvi per evitare arresti e misure cautelari non strettamente necessarie. Bene le licenze straordinarie ai semiliberi e ai lavoranti all’esterno; meglio se saranno concesse anche a coloro che già usufruiscono abitualmente di permessi-premio. Così come meglio sarebbe se la detenzione domiciliare per i detenuti a fine pena non fosse sottoposta a tutti quei vincoli (braccialetto elettronico, tipologia di reato e altre stigmatizzazioni, rilievi disciplinari accertati o solo sollevati, …) che rischiano di limitarne di molto la portata, già inficiata dalla indisponibilità di un domicilio per gran parte dei potenziali beneficiari, su cui l’Esecuzione penale esterna, Cassa Ammende e Regioni hanno fatto tanto, ma non quanto necessario. Decisivo, infine, sarebbe un ulteriore sconto di pena per i beneficiari della liberazione anticipata negli ultimi anni. Lo si fece, con significativi risultati, quando eravamo sotto giudizio della Corte europea per i diritti umani per il sovraffollamento, perché ora no?

Con una significativa riduzione delle presenze in carcere sarebbe più facile affrontare la gestione sanitaria interna della prevenzione e dei focolai, nonché la prosecuzione – in condizioni di sicurezza – delle attività lavorative e formative, di istruzione, culturali o sportive. Non possiamo, infatti, tornare a quella chiusura generalizzata a cui i detenuti sono stati costretti in primavera, né possono tornare a interrompersi quelle minime relazioni affettive garantite dalle telefonate, dalle videochiamate e dal colloquio mensile, già svolto – in molte realtà – in condizioni proibitive di distacco e di separazione.

Dopo il terribile trauma di marzo e le sue tragiche conseguenze, i detenuti hanno mostrato consapevolezza e responsabilità. Speriamo che il Parlamento, nell’esame del decreto Ristori, sappia corrispondergli.