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Il Covid-19 è entrato nelle carceri (15 i casi accertati) e tarda un vaccino che tolga al virus la sua corona. Dunque, gli istituti di pena sono una bomba epidemiologica.

Difficile disinnescarla: igiene personale, distanziamento, sanificazione, isolamento, sono chimere nella «promiscuità coatta di celle sature di corpi, liquidi e secrezioni, eiezioni e sudori» (Manconi). Eppure si deve. E se non vi basta l’obbligo costituzionale di garantire, anche a Caino, il diritto alla salute (e alla vita), siate mossi almeno da un altruismo interessato. Perché il problema riguarda detenuti e detenenti (58.592 i primi, 45.000 i secondi), con relative famiglie. Perché i tanti reclusi con patologie pregresse saranno vettori del contagio e graveranno, piantonati fino al decesso, su ospedali collassati. Perché – lo si è visto – le carceri sono «luoghi di potenziale esplosione non solo del contagio, ma anche della rabbia autodistruttrice» (Palma). Dagli istituti di pena il virus può evadere, invadendoci.

Che fare? Servono misure anche inedite, in grado di contenere i flussi in entrata e di agevolare una controllata decarcerizzazione. Non sono sufficienti quelle del decreto legge “Cura Italia”: stimati in 3.000 i detenuti in uscita, finora il Guardasigilli ne ha contati 200 (in media 1 per ognuno dei 189 istituti penitenziari). Né basteranno i 1.600 telefonini acquisiti, le 200.000 mascherine distribuite, i 770.000 guanti monouso forniti, i dichiarati 2.600 braccialetti elettronici disponibili, le 145 tende pre-triage all’ingresso dei penitenziari. Serve ben altro, e ciascuno deve fare la propria parte: in Costituzione si chiama leale cooperazione istituzionale. Lavarsene le mani, da gesto di quotidiana profilassi, tornerebbe ad essere il segno di una scelta pilatesca.

I giudici privilegino interpretazioni dall’efficace portata deflattiva. Tradotto, significa ridurre la custodia cautelare ad extrema ratio, superare le (spesso eccessive) cautele nella concessione delle misure alternative, ricorrere ai domiciliari anche in carenza di braccialetti elettronici (come insegnano le sezioni unite di Cassazione), sperimentare nuove interpretazioni dei casi di differimento della detenzione.

Le Camere, nel convertire il decreto legge n. 18 del 2020, introducano misure deflattive automatiche e tempestive a favore di detenuti che abbiano già dato prova di «accertata e consolidata meritevolezza» (Giostra): ne fa un’utile silloge il recente documento dell’Associazione dei docenti italiani di diritto penale.

Vano è invocare una legge di amnistia e indulto. La maggioranza dolomitica necessaria, voto per voto, è pari ai due terzi dei parlamentari: una quota preclusa da ragioni sanitarie, prima ancora che politiche, per un Parlamento che rinuncia a deliberare in remoto. Sarebbe però utile il deposito di una proposta di revisione dell’art. 79 della Carta: la si presenti oggi, affinché domani «la razionalità si prenda la rivincita sulla demagogia» (Pepino).

Se è lecito dire, anche Corte costituzionale e Quirinale possono molto.

La Consulta assicuri corsie preferenziali a decisioni in tema di esecuzione penale. Su tutte, il differimento della pena per sovraffollamento, la cui assenza nel codice penale è certamente incostituzionale (come riconobbe la sent. n. 279/2013). Un giudice riproponga la quaestio, e la Corte potrà fare la sua parte.

Il Capo dello Stato (come suggerito da Corleone) eserciti il suo potere di grazia, anche parziale e condizionata, in chiave umanitaria a correttivo di una pena che minaccia diritti indisponibili. Come in passato, la conceda cumulativamente, compensando l’impossibile clemenza collettiva. È una sua prerogativa che il Guardasigilli non può ostacolare. Signor Presidente, saggiamente, la usi: se non ora, quando?