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In tema di giustizia e carcere, a sinistra si usa spesso contrapporre un potere politico “cattivo” ad una magistratura “buona”. Non è così. Non c’è solo la legge Cirielli, voluta dal centro destra, che riempie le carceri di “poveracci”; vi sono alcuni magistrati di sorveglianza che affermano di non credere nel valore rieducativo della pena, negando nei fatti la possibilità di accedere alle misure alternative a molti detenuti che ne avrebbero diritto.
Ciò avviene anche per i detenuti tossicodipendenti. Nel nostro piccolo di associazione, armati dei nostri secchielli (di quattro comunità per persone con problemi di dipendenza), cerchiamo invece di svuotare il mare.
Nel 2006, le comunità del Gabbiano onlus hanno ospitato 193 persone: di queste, 76 erano in misura alternativa (63 in affidamento terapeutico e 13 in affidamento provvisorio). Nel 2008, sono state accolte 57 persone in misura alternativa (40 in affidamento terapeutico, 17 in affidamento provvisorio) e 5 agli arresti domiciliari. Complessivamente, 62 persone sono entrate in comunità provenendo dal carcere. Inoltre, nella casa alloggio per malati di Aids, sono ospitate due persone in libertà vigilata dimesse dall’Ospedale Psichiatrico Giudiziario: una di queste è tornata completamente libera da vincoli giudiziari solo dopo otto anni, quasi un ergastolo bianco.
Si conoscono le obiezioni, alcune scontate altre più incisive, all’accoglimento di detenuti in comunità.
Molti detenuti vogliono entrare in comunità solo per “scavallarsi” il carcere, si dice. A me sembra una buona e sana motivazione. Che può evolvere verso lo svolgimento di un programma comunitario efficace: con risultati migliori rispetto a quelli di chi sostiene di voler entrare in comunità con queruli piagnistei sulla consapevolezza degli errori commessi e sulla volontà di cambiare vita.
Ho citato i dati 2006, l’anno dell’indulto: su 46 persone in misura alternativa presenti al momento dell’approvazione del provvedimento, solo dieci, una volta liberi, hanno scelto di lasciare le comunità. E’ una quota del 22%, del tutto in linea con la percentuale fisiologica di abbandoni spontanei nel corso di un anno da parte di chi entra nelle nostre comunità senza vincoli giudiziari.
Un’altra obiezione è quella del possibile trasferimento in comunità della mentalità coatta: occorre in questi casi mettere in campo strumenti educativi di contrasto e di mediazione culturale. In ogni équipe delle nostre comunità è presente un ex detenuto di lungo corso per facilitare la comunicazione, la traduzione dei linguaggi, la sottolineatura delle differenze di contesto.
Una terza obiezione riguarda i limiti che la presenza di vincoli giudiziari pone alle attività comunitarie: in questi casi è necessario costruire programmi condivisi con gli assistenti sociali dell’Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna e porsi come soggetti attivi nei confronti della magistratura di sorveglianza: le prescrizioni possono anche essere cambiate.
Non vorrei però che dietro queste obiezioni ci fosse il timore di doversi confrontare sui diritti delle persone. Su alcune questioni, come i colloqui con i familiari, la censura sulla posta, l’organizzazione subita dei tempi quotidiani, il carcere rispetta la persona più di molte comunità.
Un problema concreto è invece rappresentato da un effetto collaterale dell’innalzamento da quattro a sei anni di pena o residuo pena per accedere all’affidamento terapeutico, voluto dalla Fini- Giovanardi: può capitare che i programmi comunitari siano portati a termine non solo prima del fine pena, ma anche prima della possibilità di ottenere altre misure alternative. Per evitare la beffa del rientro in carcere, bisognerebbe applicare tempestivamente la norma sulla sospensione condizionale della pena prevista dalla legge antidroga (art.90).
Accogliere i detenuti in comunità non solo può avere un esito positivo, può anche accompagnare queste persone al reinserimento sociale e, in molti casi, ad un inserimento ex novo. Con il nostro piccolo secchiello, svuotiamo il carcere di 60-70 persone all’anno: se lo facessero con questa intensità altre 50 comunità, si potrebbero accogliere 3000 persone all’anno; se lo facessero cento comunità, si arriverebbe alla rispettabile cifra di 6.000-7.000 persone. Uomini e donne sottratti all’accanimento reclusorio di questi tempi.