Una scuola superiore, un allarme antincendio che scatta, i controlli antidroga nelle aule, nessuna sostanza trovata ed un professore, Simone Zito, che denuncia l’accaduto su Facebook e finisce a sua volta denunciato e censurato. Quello avvenuto lo scorso novembre nell’Istituto Ferrari di Susa è solo uno di una serie ormai inenarrabile di blitz delle forze dell’ordine all’interno delle aule scolastiche su tutto il territorio nazionale. L’obiettivo sbandierato è di stroncare il consumo di droghe in base al presupposto che “l’educazione non basta; serve anche la divisa”. È vero, l’azione educativa di famiglie e scuole non basta: infatti merita l’insufficienza e spesso va anche fuori tema. Necessita quantomeno il rinforzo di quei 2,5 milioni di euro investiti invece sulla “sicurezza”, non per gli edifici che crollano (senza PNRR non ci sarebbero stati fondi), ma sugli Accordi territoriali tra Prefetture, Questure, Uffici scolastici regionali e Comuni per fare entrare i cani-poliziotto a fiutare nelle aule gli zainetti dei ragazzi.
L’iniziazione al consumo di tabacco, alcol e cannabis in adolescenza ha varie motivazioni, tra cui prevalgono curiosità, trasgressione, imitazione. Così come nei giovani non si è riusciti a contenere il consumo di tabacco e alcol, nonostante il divieto per i minori di età, tantomeno è avvenuto con le sanzioni amministrative per la cannabis e il rischio penale per spaccio. Realisticamente, nel quadro di un consumo giovanile che si protrae da ormai 50 anni, la prevenzione ha tre obiettivi: ritardare l’età del primo consumo; contenere la frequenza e l’entità d’uso per evitare l’instaurarsi della dipendenza; ridurre i danni connessi allo stato di alterazione. Ai servizi socio-educativi compete l’impegno più massiccio; a quelli sanitari la tempestività degli interventi d’urgenza e l’educazione alla salute; alle Forze dell’ordine i controlli alla guida e gli interventi di contenimento delle violenze.
La scuola non ha bisogno delle azioni di deterrenza nelle aule della didattica, che ottengono in genere solo effetti boomerang: spaventano la stragrande maggioranza degli studenti, alimentando una cultura di diffidenza e ostilità verso chi deve proteggere i cittadini; inducono nei ragazzi comportamenti di mimetizzazione e di chiusura difensiva, ostacolando il lavoro educativo; stigmatizzano l’eventuale possessore, con esiti spesso deleteri per lo stesso percorso scolastico.
La scuola è in grado di impedire il consumo al suo interno, molte buone esperienze lo testimoniano. Per farlo è indispensabile la motivazione: che gli insegnanti vogliano effettivamente “vedere” il problema e affrontarlo. Più facile e comodo, e più illusorio, delegare il problema alle forze dell’ordine, esito che fatalmente avviene dopo che non si è voluto o non si è stati capaci di affrontare la questione all’interno. È il momento in cui la situazione scappa di mano, passando, repentinamente, dalla mancata prevenzione alla demonizzazione della problematica e, peggio, dei suoi presunti colpevoli.
Alcuni insegnanti, tra quelli che ritengano che la relazione e l’educare siano parte irrinunciabili dell’insegnamento, provano ad opporsi e dissentire. La “novità” degli ultimi tempi è che il dissenso viene punito, con denunce all’autorità giudiziaria e censure amministrative con ripercussioni di carriera. Penalizzati sono soprattutto i docenti precari. Non tutti i Capi d’Istituto sanno difendere la libertà di opinione e di insegnamento dei loro professori, o rifiutare i controlli di polizia, come ha fatto Il Preside dell’Istituto Marco Polo di Firenze: “Non sopporto l’idea che un cane punti un ragazzo, mi ricorda brutte cose del passato… preferisco puntare su psicologi, educatori, tutors”.
La vicenda di Susa e la raccolta fondi per l’azione legale nel podcast di Fuoriluogo.
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