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Basta ripercorre le cronache degli ultimi mesi per trovare l’evidenza che abbiamo assistito alla disfatta del vertice della Amministrazione Penitenziaria di fronte alla sfida della pandemia: il Capo del Dipartimento e il Direttore generale dei detenuti si sono dimessi nel pieno dell’emergenza, e quest’ultimo – nel momento in cui chiudiamo questo libro bianco – ancora non è stato sostituito. Nello stesso tempo, prima e durante la pandemia abbiamo verificato la totale assenza di Governo e Parlamento in materia di droghe, la cui legislazione è all’origine del sovraffollamento nelle carceri.
E’ accaduto di tutto nella vita del carcere dopo i primi provvedimenti del Governo, di sospensione dei colloqui e dei permessi premio senza comunicazione, informazione e condivisione con i detenuti, ancora una volta considerati semplici terminali di un potere dispositivo dello Stato assoluto e indiscutibile. Sono scoppiate rivolte a cui non eravamo più abituati, confinate nei ricordi di un passato remoto e che solo qualche complottista di casa nostra ha potuto attribuire a una strategia della mafia, della camorra e della ndrangheta per far uscire dal carcere chissà quale potente capo mafia. Così si è potuto leggere di una lista segreta di 376 “boss scarcerati”, quando i detenuti in 41bis scarcerati per gravi motivi di salute e assegnati alla misura della detenzione domiciliare erano solo 3. Gli altri erano detenuti nel circuito di alta sicurezza a cui si accede ormai per innumerevoli titoli di reato e avevano – come tanti altri – patologie rischiose per il contagio da virus. La costruzione mediatica della presunta liberazione dei boss mafiosi si è portata via il capo del Dap che in occasione della morte di 13 detenuti era rimasto indenne al suo posto. Due pesi e due misure.
Se è vero che, senza amnistia e indulto, ma con la sola corretta e scrupolosa applicazione di leggi in gran parte già esistenti, sono usciti dal carcere circa 9000 detenuti, la lezione evidente è che ci sono troppe persone in carcere che potrebbero godere di misure alternative, che il carcere non è quella extrema ratio che la Costituzione e le leggi vorrebbero che fosse.
Ciò nonostante, è stata solo la fortuna che ha impedito che in carcere si verificasse un contagio simile a quello che si è prodotto nelle case di riposo con la strage di vecchi innocenti. Si sarebbe verificata un’ecatombe. Solo la fortuna ha salvato i detenuti non solo dall’ordinaria promiscuità, ma anche da surreali isolamenti fatti in stanze multiple, a dispetto delle parole e del loro legame con le cose di cui parlano.
Per mesi il carcere è stato chiuso: senza volontari, senza scuola, senza attività (se non la produzione di mascherine). Unica cosa positivamente memorabile (oltre l’abnegazione di tanto personale di prima fila, sanitario e penitenziario) è stato il superamento del tabù nei confronti degli strumenti di videocomunicazione e, più in generale, della comunicazione digitale. Rotto il tabù, bisognerà ora vigilare perché non si torni indietro e la rete e la comunicazione digitale restino nella vita quotidiana delle carceri accanto ai colloqui e agli strumenti tradizionali di comunicazione e attività, con i familiari, con gli insegnanti, con i volontari.
Nel prossimo futuro c’è anche l’occasione per decidere finalmente un piano straordinario per l’applicazione delle norme igienico-sanitarie previste nel Regolamento del 2000. Le risorse europee destinate alla prevenzione potrebbero essere destinate ad assicurare i servizi in camera in tutti gli istituti penitenziari, dando finalmente attuazione a quanto deciso venti anni fa e che avrebbe potuto fare la differenza (insieme alla rapida riduzione della popolazione detenuta) in alcuni focolai di Covid19 che pure si sono manifestati in alcune carceri italiane. E’ il momento di impedire il ritorno alla normalità fatta di corpi accatastati e con servizi igienici a vista, con il lavandino accanto alla tazza del cesso e le docce in comune per decine e decine di persone. Un carcere in cui la raccomandazione del “distanziamento fisico” e del lavarsi spesso le mani sono stati comprensibilmente considerati una presa in giro. Sarebbe un ennesimo paradosso se, dopo essere riusciti a eliminare i banconi divisori, l’unica eredità del coronavirus fossero le separazioni di plexiglas nelle sale colloqui.
Quest’anno ricorrono i venticinque anni dalla fondazione di Forum Droghe, una delle associazioni che promuovono il Libro Bianco e che ha tenuto alta la bandiera della resistenza alle battaglie ideologiche punitive e proibizioniste, con la promozione di cartelli alternativi, proposte di legge, mobilitazioni della società civile, studi, ricerche, seminari, convegni, libri: un patrimonio che costituisce ancora oggi la base per azioni e rivendicazioni.
I dati che presentiamo in questo Libro bianco, come è tradizione, sono quelli dell’anno precedente, cioè del 2019, e si sovrappongono esattamente a quelli dell’anno precedente ancora, secondo un trend ormai consolidato.
Il 30% degli ingressi in carcere è per violazione dell’art. 73 del Dpr 309/90 e sui 60.769 detenuti presenti al 31/12/2019, quasi il 25% era ristretto per quel reato: detenzione o spaccio di sostanze stupefacenti. In termini assoluti si fa riferimento a più di 14.000 persone, arrivando a 21.000 con l’imputazione di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti (34,80%).
Per quanto riguarda i detenuti classificati come tossicodipendenti i numeri sono altrettanto impressionanti: per gli ingressi si è attestati su oltre il 36% e per i presenti quasi il 28%. In termini assoluti parliamo di quasi 17.000 persone, mentre la differenza percentuale tra ingressi e presenze sta a indicare che tra i tossicodipendenti c’è una più rapida mobilità penitenziaria: si entra e si esce più facilmente, e magari si ritorna, in un circolo vizioso senza senso e senza costrutto.
Sommando ai detenuti per violazione del testo unico sulle sostanze stupefacenti i consumatori abituali di sostanze stupefacenti che sono entrati in carcere per un altro reato legato al loro stile di vita e di emarginazione, possiamo dire con certezza che più del 50% degli ingressi e delle presenze in carcere hanno a che fare con una questione sociale declinata come fatto criminale. Almeno 30.000 detenuti sono in carcere a causa di una legge che persegue un reato senza vittima e che produce essa stessa le sue vittime, costringendole nei gironi infernali di una carcerazione senza scopo.
Abbiamo detto molte volte che se si fosse coerenti con il principio del carcere come extrema ratio, non avremmo sovraffollamento e potremmo garantire condizioni di vita e igienico sanitarie accettabili per chi comunque dovesse esservi rinchiuso. Ci si potrebbe così concentrare nella difficile sfida dell’attuazione della finalità rieducativa per chi ha commesso gravi reati contro la persona, o nell’ambito di organizzazioni criminali, e non perdere tempo con quella che Alessandro Margara definiva detenzione sociale. La simulazione che anche quest’anno presentiamo di un carcere senza detenuti per droga e senza detenuti classificati “tossicodipendenti” è eloquente.
La situazione del peso sul sistema giustizia dei processi per droga rimane gravemente allarmante e, se si confermano i numeri sempre più consistenti delle misure alternative, si conferma anche la tendenza all’assaggio del carcere per i tossicodipendenti: alle alternative ci si arriva preferibilmente così, anche se le pene sono brevi o brevissime (ne scrive anche Massimo Urzi, tra gli approfondimenti).
Rimangono esplosive le segnalazioni alle prefetture per semplice consumo che ormai raggiungono la cifra di 1.312.180 persone (un milione trecento dodicimila 180, perlopiù giovani) dal 1990 ad oggi, che rischiano pesanti e stigmatizzanti sanzioni amministrative. Una criminalizzazione di massa che in gran parte (961.551 persone, il 73,28% dei casi) riguarda il consumo di cannabinoidi.
Il Libro Bianco è ricco di approfondimenti su questioni aperte, dall’emergenza sanitaria (Zuffa) all’ideologia securitaria, dal non governo del carcere (Maisto) al rischio che l’emergenza offra la tentazione di un ritorno indietro. Altri contributi si concentrano sulla vita quotidiana in carcere nel tempo delle restrizioni (Mellano e Ciuffoletti) e sulla tragedia delle rivolte e dei tredici morti di Modena e Rieti (Segio), troppo presto dimenticati.
Oltre alla parte che presenta il quadro dei numeri, anche quest’anno commentato da Maurizio Cianchella, vi è un approfondimento delle proposte di riforma del Dpr 309/90 (Perduca e Grieco) e in particolare del 5° comma dell’art. 73 sui fatti di lieve entità (Poneti), che la ministra dell’Interno Lamorgese solo un mese prima che scoppiasse l’emergenza proponeva di abolire, evidentemente inconsapevole che le carceri si sarebbero riempite più di quanto non lo fossero già.
Una parte monografica è dedicata alle droghe in quarantena, con un esame delle strategie di vita quotidiana, gli stili di consumo, i servizi (Ronconi e di Pino, Amerini, De Facci e Sarosi, ma si veda anche Vecchio negli approfondimenti). Sono presentati i risultati di ricerche sui sistemi di autoregolazione dei consumatori, sulla riduzione del danno, sui Serd e sulle comunità.
Una parte è rivolta alla realtà internazionale e alle prospettive di cambiamento in alcuni paesi (Franchi) e in sede Onu (Perduca e Long, Fiorentini), mentre in Italia indicazioni contrastanti vengono dalle Sezioni unite della Cassazione e dall’iniziativa parlamentare della Lega, giustamente bilanciata da quella dell’on. Magi e altri.
Infine Patrizio Gonnella rilancia l’idea di un appuntamento a Milano, in autunno per una Conferenza nazionale sulle droghe dal basso, che riproponga le urgenze che Governo e Parlamento non mettono in agenda.
Si è riusciti a chiudere gli Opg tre anni fa, un orrore contro la civiltà e l’umanità che – ahinoi! – qualche scellerato comincia a rimpiangere apertamente. Occorre iniziare una grande battaglia per una architettura che ridisegni gli spazi della pena in funzione dell’imperativo della Costituzione. Cominciando proprio dalla abrogazione delle leggi criminogene e garantendo diritti fondamentali a cominciare dalla sessualità.
Una intelligente operazione di “minimizzazione dei rischi” vuol dire, anche in carcere, affidarsi alla responsabilità degli individui. Il servizio sanitario in carcere deve essere ripensato in termini di prevenzione della salute, come dovrà essere fatto in tutto il Paese. Risorse per questo obiettivo ci sono e andranno utilizzate senza ritardi. Solo così l’emergenza non sarà stata una tragedia, ma una occasione per cambiare.
Se non si compiranno questi passi, l’anno prossimo presenteremo un Libro Bianco con i dati del 2020 uguali a quelli del 2019, perché la parentesi di questi mesi sarà cinicamente riassorbita dalle parole d’ordine della sicurezza dettate dagli imprenditori della paura e dall’abuso populista della giustizia penale.