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La storia di Sanpa e del documentato Docu-film che la racconta al grande pubblico su Netflix, ed il dibattito che l’ha accompagnata in questi mesi, ci sembra una simbolica rappresentazione, anche oggi dopo 30/40 anni, dell’incapacità politica e della difficoltà dell’opinione pubblica di trattare in maniera approfondita e seria il tema ormai quarantennale dell’uso, consumo problematico e della dipendenza da parte di un ampio numero di persone, soprattutto di giovani.
Un tema difficile e complesso, estremamente cangiante per sostanze e problemi in tutti questi anni, in un rapporto continuo con i cambiamenti sociali avvenuti e che oggi ci racconta storie e volti molto diversi da allora e che non è possibile capire se non inseriti da subito nel clima in cui è nato e si è sviluppa, come tutti i fenomeni sociosanitari. Pensiamo solo alle circa 150 nuove sostanze psicoattive NPS immesse nel mercato, soprattutto via dark web, ogni anno negli ultimi 5 e la loro assoluta distanza dal modello di consumo e dipendenza dell’eroina.
In quegli anni Ottanta, di fronte alla diffusione piuttosto veloce dell’eroina (una tragedia segnata da circa 250mila tossicodipendenti di cui un 50/60 % siero positivi e malati di AIDS e con circa 1500/2.000 morti l’anno di overdose) una società spaventata e incapace di dare risposte efficaci, politiche o sociali, finì per dare un mandato senza limiti, quasi onnipotente, alle nascenti comunità, che sperimentavano in modo troppo spesso improvvisato e altre volte tragico, (dopo i manicomi degli anni Sessanta/Settanta) un tentativo di accoglienze diffuse sul territorio. Non c’era solo Muccioli, come si potrebbe credere vedendo la serie ma anche leggendo le cronache di quegli anni. Lui si presentò da subito però come l’unico vero salvatore dalla “droga”, osannato e mitizzato anche da molti politici di allora in cerca della facile e tranquillizzante soluzione e della “certa” risposta di sicurezza e controllo, a fronte delle difficili domandi sociali ed educative che il tema eroina sottintendeva.
Nacquero in quegli anni e si svilupparono centinaia (almeno 200 da un prima stima, oggi sono almeno 500 ) diverse realtà di accoglienza, molte aderenti anche al CNCA, più laiche ed aperte, o della rete Ceis, più vicine al mondo della chiesa e del mondo cattolico. Il Coordinamento nazionale delle comunità terapeutiche (CNCA) nacque proprio nel confronto serrato e spesso aspro tra le varie realtà sparse in tutta Italia nella negazione di qualsiasi forma di violenza e segregazione. Centinaia di sperimentazioni di accoglienza che volevano partire proprio dai temi e problemi che il tema droga poneva alla società, proponendo analisi condivise sulla formazione congiunta, sullo scambio di sperimentazioni ed approcci volontaristici ed ideali ma sempre più competenti ed integrate con professionalità diverse ( sociologici, psicologi, educatori, psichiatri ecc.) a partire da realtà già radicate nei territori – come il Gruppo Abele di don Ciotti, San Benedetto al porto di don Gallo e la Comunità di Capodarco. In Italia poi si sviluppavano altre realtà importanti soprattutto per mano di sacerdoti e laici impegnati come don Picchi con il Ceis, don Mazzi con Exodus, Rostagno e Saman, Villa Maraini a Roma. C’erano verso la fine degli anni Ottanta, oltre 300 realtà che accoglievano tossicodipendenti (ora sono almeno 500 enti con circa 800 servizi), e tutte usavano ed ancor più usano metodi molto diversi da quelli del fondatore di San Patrignano, che non aveva mai negato l’uso della forza se necessario. Nascevano così piccole strutture diffuse (15,20, massimo 30 posti ) basate sulla scelta individuale alla cura, sull’ascolto individuale, l’aiuto disinteressato, l’educazione attiva e la responsabilità individuale, la condivisione comunitaria di fatiche e progressi, il supporto alle famiglie di provenienza, le campagne di prevenzione sui territori, i centri di ascolto, l’accompagnamento al reinserimento sociale di chi riusciva e sceglieva di scrivere nuove pagine della propria vita anche fuori dal mondo Comunità. Una posizione in antitesi anche filosofica, educativa al manifesto di San Patrignano e di poche altre realtà affiliate che non negavano il contenimento e la coercizione anche violenta, la sospensione dei diritti minimi della persona, addirittura ratificati da discutibili sentenze della magistratura a fronte di morti, incatenamenti, violenze di vario tipo.
Quegli anni sono cruciali anche nelle prospettive attuali, perché è allora che si costruisce il discorso, confronto e talvolta scontro sulla “droga”. Discussioni e agiti che riverberano e ripropongono un antico dibattitto sui diritti inalienabili della scelta anche delle persone fragili e vulnerabili accolte e la possibilità o impossibilità che in nome del bene dell’altro sia possibile agire violenze, soprusi, limitazioni della libertà (impostazione classica delle istituzioni totali) e quella visione ideologica dominante ancora oggi nel mondo politico e dei media più reazionari. Si afferma allora un approccio che diventerà anche legislativo che non sembra interessato a conoscere realmente, a comprendere il significato e le domande sottese dell’uso delle diverse sostanze psicoattive, ed a prendersi carico ove necessario e richiesto, della singolarità delle storie delle persone, ad accompagnarle nella loro fragilità in un nuovo progetto di vita che – esse sole – possono decidere. Tutto viene azzerato nella comunicazione di quegli anni, per esaltare una visione che vede il consumatore di droghe come una persona colpevole verso di se e la società ed unico responsabile del proprio vizio, incapace di progettare la propria vita, a cui deve essere imposta – con ogni mezzo – la salvezza dalla droga e da sé stesso. È nella costruzione di questa visione che Muccioli è stato simbolico e fondamentale, rappresentando con la propria esperienza la realizzazione perfetta del paradigma droga – punizione – allontanamento sociale. Una struttura nata probabilmente con scopi ideali di aiuto si è man mano trasformata in una istituzione totale senza regole e limiti espliciti nel raggiungere i propri fini; in campo educativo, anche con la legittimazione della violenza come sistema, in campo economico con la continua capitalizzazione del lavoro gratuito degli ospiti e poi mai riconosciuto alle persone, con le influenze politiche ed i vantaggi economici enormi che hanno ispirato una delle leggi più punitive e ambigue d’Europa sulle droghe, e nell’approccio ideologico in cui sostanze, rischi, criticità, problemi dovuti a consumi e sostanze profondamente diverse si appiattiscono in uno sterile dibattito tra liberalizzazione totale versus penalizzazione totale e punizione come priorità di approccio.
È evidente che, impostato così il discorso sulla “droga” (rigorosamente al singolare), il passaggio conseguente non poteva che essere la sanzione penale, come avvenne con la legge Jervolino-Vassalli del 1990. Punire il “drogato” anche con il carcere come mezzo necessario, e giusto, per salvarlo e reintegrarlo in una comunità che ha dovuto per forza di cose escluderlo, rinchiudendolo in un luogo separato prima di tutto dal punto di vista simbolico, in cui per qualcuno (la magistratura lo sancirà in alcune sentenze) addirittura non vigevano più nemmeno i diritti individuali. La “droga” era il mostro che giustificava tutto. Proprio questa concezione del fenomeno droghe e del modo per affrontarlo sarà poi cavalcata da chi voleva imporre anche in Italia, per ragioni politiche, una “guerra alla droga” che, inevitabilmente portò ad una repressione mirata verso i consumatori di sostanze, riempiendone le carceri. Si è accettato il ricatto di chi diceva che non c’era altro modo per “uscire dalla droga” se non la costrizione, la punizione, fino purtroppo a giustificare azioni di violenza inaudita. La campagna “Educare, non punire” che portò al referendum del ’93 nacque proprio per contestare l’approccio repressivo della legge Jervolino-Vassalli, ispirato anche dal fondatore di San Patrignano.
La campagna aveva l’obiettivo di rifiutare il condizionamento violento delle persone e il carcere come mezzo prioritario di induzione al cambiamento. Altri approcci erano possibili, come negli anni è stato dimostrato in modo inequivocabile dalla moltitudine di comunità e servizi di vario tipo, non solo del CNCA, che non hanno mai usato la violenza, fisica e psicologica, per sostenere le persone con problemi di dipendenza e accompagnarle con successo al cambiamento e al reinserimento nella società. Anche nella cura delle dipendenze, il fine non giustifica i mezzi.
Oggi, ci troviamo ancora allo stesso snodo. Decine di migliaia di persone hanno affollato e affollano le carceri per reati connessi alle droghe, senza essere veri spacciatori o padrini del narcotraffico, e innumerevoli sono state segnalate alle prefetture ( più di un milione ). Si punisce con la legge il semplice consumo, anche quando non comporta danni a terzi. Quel discorso, nato sulla tragedia della diffusione dell’eroina, viene ancora utilizzato per ogni droga e ogni diverso consumo di essa, senza mai distinguere tra sperimentazione, uso, abuso e dipendenza da sostanze.
La priorità resta, dunque, quella di smascherare la natura puramente ideologica di questo discorso sulle droghe, che non è affatto “necessario”: esistevano ed esistono diversi modi per vivere e affrontare l’uso di sostanze, che rimandano ad altre letture psicologiche e sociali e che non fanno leva sulla criminalizzazione e la coercizione. Non dobbiamo smettere di ricordare che dietro le sostanze ci sono le storie delle persone, tutte delicatissime e meritevoli di attenzione e cura. Prima di pensare di risolvere e “salvare qualcuno” occorre aver voglia di evidenziare e capire i problemi con cui si presentano nelle nostre strutture, alle nostre unità mobili, nei nostri drop in, occorre assumerne lo sguardo, accoglierne le domande. Senza accontentarsi di ricorrere semplicisticamente a termini di definizione logori come “colpa” “sballo” “tossico” per spiegare fenomeni molto complessi, che chiamano in causa un tessuto sociale smagliato che non è più in grado di accompagnare i più giovani nel loro percorso di crescita, e nemmeno di capirli. (Lo vediamo anche nel tempo della pandemia, dove i ragazzi sono sempre additati come irresponsabili dediti alla “movida”, ancora una volta “colpevoli”).
Se guardiamo a chi usa sostanze come a una persona che pone a sé stessa e a noi tutti delle domande di senso, è evidente che dobbiamo riformare in modo radicale la legislazione vigente, prevedendo – in ogni caso – la depenalizzazione del consumo di sostanze, la costruzione di strutturali e continuative campagne e servizi di prevenzione, occasioni di presa in carico precoce, percorsi seri di reinserimento sociale. Una persona in difficoltà per i suoi consumi e dipendenze deve incontrare il prima possibile una figura educativa, di supporto psicologico, una relazione di aiuto e non un carceriere, nemmeno se travestito da operatore sociale. Non c’è niente da punire nel consumo di sostanze e la coercizione non è assolutamente necessaria, perciò il carcere e la sanzione penale non sono il mezzo adatto, e giusto, per affrontare la questione droghe.
Decostruire il modello dominante – colpevolizzante e repressivo – dovrebbe poi portare a un nuovo e assai più ampio investimento sociale e politico sulla questione sostanze psicoattive in cui comprendere l’alcool. È inconcepibile che, da dodici anni, il governo non convochi una Conferenza nazionale sulle droghe che, per legge, dovrebbe tenersi ogni tre anni. Ci pare il segno evidente del disinteresse e/o l’incapacità che la politica di ogni schieramento riserva alla diffusione delle sostanze, che resta al massimo oggetto di qualche dichiarazione interessata solo al consenso, normalmente di segno reazionario.
Sui territori, poi, occorre implementare luoghi e momenti che aiutino i ragazzi nella loro crescita, specie i più fragili. Da tempo chiediamo un Piano nazionale sulla prevenzione che dovrebbe unire le azioni di servizi sociali, servizi sanitari, scuole e famiglie, gli operatori di strada, della presa in carico precoce, del supporto psicologico ove necessario.
Le comunità e, più in generale, i servizi e gli interventi per le dipendenze da soli non possono affrontare un fenomeno così complesso. Molto lavoro è stato fatto, ad esempio creando una moltitudine di servizi a bassa soglia capaci di essere presenti e interagire nei luoghi in cui le persone consumano sostanze (vedi le unità di strada nei luoghi del divertimento giovanile o nelle piazze di spaccio come il parco di Rogoredo o i drop in per le situazioni più cronicizzate della marginalità urbana). Ma questo non basta. Dobbiamo capire cosa sta accadendo, decidere dove intervenire, quanto e come finanziare gli interventi, che ruolo dare alla scuola come soggetto formativo, preventivo e di responsabilizzazione peer to peer, che rapporto intrecciare con le famiglie.
Se usciamo dal modello vittima/colpevole/salvatore – semplificante e, in fondo, rassicurante per una certa cultura reazionaria, perché nasconde tutto quello che chiama in causa noi stessi – ed il modello societario che abbiamo costruito, si apre un lavoro enorme da fare insieme ai giovani ed alla loro ricerca di senso e piacere.