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Dopo un lungo periodo di oblio, le sostanze psichedeliche stanno riemergendo come efficaci strumenti di cura in campo psichiatrico. Tra i principali fautori della rinascita c’è MAPS, la Multidisciplinary association for Psychedelic Studies, centro studi non-profit fondato da Rick Doblin nel 1986, che promuove ricerca scientifica ed educazione sugli psichedelici. L’obiettivo è dare la giusta collocazione a sostanze che avevano aperto una strada per la conoscenza della psiche, oggetto tra gli anni ’50 e ’60 di mille articoli scientifici, diventate poi pietra dello scandalo di una guerra ideologica che con la scienza aveva ben poco a che vedere. MAPS si propone di riportarle nei contesti medici per cui erano state scoperte, e gli studi che promuove o svolge direttamente, così come altre ricerche indipendenti condotte in Germania, Svizzera, Stati Uniti e Inghilterra, dimostrano che le potenzialità sono enormi.
I campi di applicazione sono molteplici, ma è forse utile sottolineare qui il contributo che composti come LSD, psilocibina e MDMA stanno offrendo nella cura di diverse forme di dipendenza. La psilocibina, il ritrovato ottenuto dai cosiddetti “funghetti magici”, è ad esempio al centro di una ricerca dell’università medica Johns Hopkins, in Maryland, negli Stati Uniti, come cura per il tabagismo. Una sperimentazione in corso presso l’università dell’Alabama prevede l’uso della stessa sostanza contro l’assuefazione da cocaina, un trattamento avviato nel 2015, di cui a breve dovrebbero essere resi noti i risultati finali.
È però l’alcolismo il terreno di sperimentazione più longevo. Uno dei primi studi in questo senso fu condotto da uno dei pionieri della psichedelia scientifica, Humphry Osmond, e dallo psichiatra canadese Abram Hoffer, dal 1953 al 1963, con risultati tanto soddisfacenti da conquistare rapidamente la ribalta mondiale. Più di recente, un altro protagonista del ritorno allo psichedelico in ambito scientifico, il professore di psichiatria presso la New York University, Michael Bogenschutz, ha ottenuto eccellenti risultati con la psilocibina, e potrebbe presto approdare alla fase tre, l’ultimo step prima dell’approvazione da parte della FDA, l’agenzia federale del farmaco statunitense.
Nei paesi anglosassoni l’abuso di alcol è una delle principali cause di morte nei maschi adulti. È naturale quindi che si indaghi in ogni direzione. Nessuno, fino ad oggi, aveva però provato a sperimentare l’MDMA, il composto psichedelico più comunemente noto come Ecstasy. Uno studio dell’Imperial College condotto da Ben Sessa e sostenuto proprio da MAPS ha stupito il mondo scientifico per i risultati ottenuti, ma anche per la filosofia che ispira la ricerca. Il principio su cui si basa il trattamento ha molto a che vedere con gli effetti peculiari di questa sostanza che, esattamente come l’LSD, è nata in ambienti scientifici, nel lontanissimo 1912, per poi terminare la sua corsa in discoteca, frettolosamente etichettata come droga da sballo. Somministrata in un contesto medico, con il supporto di due psicoterapeuti per tutta la durata dell’effetto, la MDMA induce a uno stato di rilassamento e benessere, enfatizzando l’empatia e la capacità di connessione dell’individuo. La sostanza agisce sull’amigdala, l’area del cervello associata alla paura ed allo stress, riducendone l’attività. Grazie a questo effetto, il paziente è in grado di riesumare ed affrontare ricordi relativi al trauma vissuto, senza essere sopraffatto dall’ansia. Ed è in questa cornice di supporto psicoterapeutico assistito dall’MDMA che si inserisce l’approccio messo a punto da Sessa. Con due sole somministrazioni della sostanza psichedelica, nel corso di nove mesi di percorso psicoterapeutico, i soggetti in cura sono passati da una media di 130,6 unità alcoliche a settimana a sole 18,7 unità, l’equivalente di una pinta al giorno di birra.
Si calcola che due terzi degli alcolisti hanno subito traumi o abusi, e che sia questo il motivo per cui facciano ricorso all’alcol. Non è un caso che la principale applicazione degli studi di MAPS sia dedicata proprio alla cura del cosiddetto PTSD, il disturbo post-traumatico da stress. Per certi versi, si tratta della malattia mentale dei nostri giorni. Diffusa a ventaglio, graduata per intensità e durata, è un problema che soprattutto in questi drammatici frangenti, con la pandemia che nel mondo ha già ucciso quasi 4 milioni di persone e ne ha infettate quasi 180, tocca in via diretta o indiretta, buona parte della popolazione mondiale. Lavori condotti in Italia, Spagna, Cina, India, Irlanda e Israele sono concordi nel rilevare sintomi della sindrome post traumatica con un’incidenza del 30% su coloro che hanno subito gli effetti più gravi della malattia. Quasi uno su tre.
Ha destato quindi molta attenzione la ricerca finanziata e condotta da MAPS, in collaborazione con la University of California di San Francisco e altri centri di eccellenza negli Stati Uniti e all’estero, che sempre attraverso la terapia assistita da MDMA ha ottenuto risultati molto incoraggianti nel trattamento di forme gravi di PTSD. “Non è la droga a fare miracoli, è la terapia combinata alla droga”, ha specificato il fondatore di MAPS, Doblin, che è anche tra i coordinatori della ricerca. Tra gli 89 pazienti ammessi ai trial c’erano vittime di violenze sessuali, superstiti di stragi di massa, o veterani della guerra in Iraq. Tutti sono stati prima sottoposti a sessioni propedeutiche di psicoterapia. Quindi hanno ricevuto dosi di placebo o di MDMA, in tre sessioni di 8 ore ciascuna nell’arco di un mese, somministrate parallelamente alle sedute con due psicoterapeuti. Alla conclusione del percorso, nel follow-up tenuto due mesi dopo, il 68% dei volontari curati con psicoterapia combinata all’MDMA non aveva più sintomi tali da configurare una diagnosi del PTSD, contro il 32% delle persone trattate soltanto con placebo e sessioni psicoterapeutiche. La ricerca ha così superato il primo dei due test clinici di terza fase e la sperimentazione è vicina all’approvazione della FDA. Sarebbe il primo passo di una seconda rivoluzione, simile per portata ma forse anche più dirompente da un punto di vista scientifico rispetto alla legalizzazione dell’uso terapeutico della cannabis. Il clima è favorevole, il mondo scientifico curioso e propositivo. Si avverte il bisogno di un nuovo atteggiamento nei confronti di questa realtà anche da parte del mondo politico.