Un po’ di storia della fattispecie di lieve entità
L’art. 73, comma 5, D.P.R. n. 309 del 1990 è arrivato alla sua versione attuale attraverso una serie di modifiche, che merita ricordare per capire il senso dell’ulteriore proposta di modifica che qui si sostiene.
La fattispecie di lieve entità è stata introdotta nel Testo Unico sin dalla sua emanazione nel 1990, al comma 5 dell’art. 73, con lo scopo di attenuare il regime sanzionatorio molto severo stabilito per le condotte illecite previste dai commi precedenti del medesimo articolo, nel caso in cui, «per i mezzi, per le modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze», i fatti descritti negli stessi commi siano di «lieve entità».
Il Testo Unico andava a sostituirsi alla precedente legge in materia di sostanze stupefacenti (Legge 685 del 1975), che prevedeva una fattispecie, autonoma, di minore gravità (art. 72), relativa alle stesse condotte previste nel precedente art. 71, ma punite meno rigidamente perché riferite a «modiche quantità» di stupefacente, destinate allo «uso personale non terapeutico di terzi».
La nuova fattispecie di lieve entità prevista nell’art. 73, 5° co. del Testo Unico è stata invece qualificata dalla giurisprudenza come circostanza attenuante. E la pena originariamente stabilita era differenziata per tipologia di sostanza: da sei mesi a quattro anni di reclusione, con multa da due milioni a venti milioni di lire, per il caso di condotte aventi ad oggetto sostanze inserite nelle tabelle di classificazione degli stupefacenti II e IV (“droghe leggere”), e da uno a sei anni di reclusione, con multa da cinque milioni a cinquanta milioni di lire, per sostanze inserite nelle tabelle I e III (“droghe pesanti”).
Con la Legge Fini-Giovanardi il Testo Unico è stato radicalmente modificato nel 2006, eliminando la distinzione tra “droghe leggere” e “droghe pesanti”, che proveniva dalla Legge del 1975 e che il Testo Unico del 1990 aveva mantenuto. Anche l’attenuante prevista dall’art. 73, comma 5 è stata modificata in questo senso, con l’introduzione di un’unica forbice sanzionatoria: la reclusione da uno a sei anni e la multa da euro 3.000 ad euro 26.000; la Fini-Giovanardi non è invece intervenuta sulle altre caratteristiche della fattispecie attenuata.
La Legge Fini Giovanardi è stata dichiarata incostituzionale nel 2014, e la Corte Costituzionale ha precisato che dovevano trovare nuovamente applicazione il testo dell’art. 73 e le tabelle previgenti alle modifiche del 2006, perché mai validamente abrogati. Si torna così alla distinzione sanzionatoria tra “droghe leggere” e “droghe pesati”, ma non nel caso della fattispecie di lieve entità. Il comma 5 infatti non è stato toccato dall’intervento della Corte Costituzionale (come espressamente chiarito nella stessa sentenza n. 32 del 2014 e nella successiva n. 179 del 2017) in quanto, poco prima della sua pronunzia tale disposizione era stata nuovamente modificata dal decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10), con lo scopo dichiarato di trasformare la disposizione in una fattispecie autonoma di reato. Il decreto-legge aveva la funzione di deflazione della popolazione penitenziaria, a cui la qualificazione come fattispecie autonoma poteva contribuire, sottraendo la lieve entità del reato al giudizio di bilanciamento con eventuali aggravanti. Con la stessa norma era stata inoltre rimodulata la pena nella reclusione da uno a cinque anni.
Subito dopo la sentenza della Corte Costituzionale il legislatore è dovuto intervenire per ridisegnare i cataloghi delle sostanze stupefacenti, poiché quelli fatti rivivere dalla Corte – e cioè quelli antecedenti alla riforma del 2006 – non comprendevano le integrazioni fatte negli anni successivi. A questo scopo è stato emanato il decreto-legge 20 marzo 2014, n. 36, nella cui legge di conversione (16 maggio 2014, n. 79) è stata inserita anche una nuova modifica del comma 5 dell’art. 73: il trattamento sanzionatorio, rimodulato in senso più favorevole entro la forbice edittale della reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da 1.032 a 10.329 (che corrisponde alla medesima pena stabilita nel 1990 per l’attenuante nel caso il fatto di lieve entità avesse avuto ad oggetto droghe “leggere”).
Sulla differenziazione di pena a seconda delle sostanze
La distinzione tra “droghe leggere” e “droghe pesanti” dal punto di vista sanzionatorio nasce con la Legge del 1975, viene mantenuta nel Testo unico del 1990, e resta in vigore fino al 2006. In quell’anno la Legge Fini-Giovanardi cambia l’impostazione, abolendo la distinzione per tutte le fattispecie, ordinarie e attenuate. Fino al 2014, quando con la sentenza della Corte Costituzionale e gli interventi normativi concomitanti viene ripristinata la distinzione tra “droghe leggere” e “droghe pesanti”. Ma ciò accade solo per le fattispecie ordinarie, mentre la fattispecie di lieve entità resta indistinta riguardo alla tipologia delle sostanze e viene ridisegnata come un reato autonomo e non più una circostanza attenuante.
Su questo quadro si è espressa la Corte Costituzionale nel 2016. La Corte era stata investita della questione di legittimità del 5° comma dell’art. 73, che veniva censurato per la mancata distinzione di pena a seconda del tipo di sostanza, che invece era presente, a seguito della Sentenza 32/2014, nella fattispecie ordinaria.
La Corte Costituzionale, con la sentenza 23/2016, dichiara la questione inammissibile, in base alla considerazione che con essa si chiede alla Corte un intervento additivo in materia penale, in assenza di soluzioni costituzionalmente obbligate, richiesta che, esorbita dai poteri spettanti al giudice delle leggi.
La Corte afferma che non è necessario rispettare una simmetria sanzionatoria tra fatti non di lieve entità e fatti di lieve entità, poiché risulta ormai pacifico, a seguito delle modifiche normative del 2014 e della giurisprudenza successiva che il 5° comma dell’art. 73 consista in una fattispecie autonoma. E “dunque non vi è necessità di riprodurre la medesima distinzione tra pene differenti a seconda delle sostanze, come avviene nella fattispecie non lieve, mantenendo una simmetria sanzionatoria tra fatti di lieve entità e quelli non lievi, ma può la fattispecie di lieve entità essere unica e venire modulata in intensità punitiva dal giudice, anche tenendo conto del tipo di sostanza”. L’autonomia della fattispecie e la possibilità del giudice di modulare nel caso concreto la pena anche a seconda della sostanza sono le argomentazioni utilizzate dalla Corte per salvare la costituzionalità del 5° comma.
Nel caso di pluralità di sostanze detenute si è posta la questione dell’applicazione, o meno, della fattispecie di lieve entità, sulla quale si sono espresse le Sezioni Unite della Cassazione, che nel 2018 hanno risposto al quesito “se la diversità di sostanze stupefacenti, a prescindere dal dato quantitativo, osti alla configurabilità dell’ipotesi di lieve entità di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990 e, in caso negativo, se tale reato possa concorrere con le fattispecie previste ai commi 1 e 4 del medesimo art. 73 d.P.R. cit.”.
Vi era il contrasto tra due orientamenti giurisprudenziali. Il primo, che riteneva la pluralità di sostanze rinvenute un indice, di per sé, di fatti di non lieve entità: “la diversità qualitativa dello stupefacente è circostanza che, da sola, esclude la minima offensività del fatto, perché esprime l’attitudine della condotta a rivolgersi ad un cospicuo e variegato numero di consumatori e la sua capacità di penetrazione nel mercato” (considerato in diritto 4.1.). Il secondo, che non riteneva necessariamente esclusa l’applicabilità del 5° comma in caso di pluralità di sostanze, ma rimetteva a una valutazione nel caso concreto dell’effettiva portata criminale del fatto: “la diversa tipologia di sostanze detenute o cedute non sarebbe un dato necessariamente ostativo alla configurabilità della fattispecie di lieve entità, qualora le peculiarità del caso concreto risultino indicative di una complessiva minore portata dell’attività svolta, essendo l’elemento della diversità tipologica idoneo ad escludere l’ipotesi del fatto lieve soltanto qualora sia dimostrativo di una significativa potenzialità offensiva” (considerato in diritto 4.2.).
Le Sezioni Unite fanno proprio il secondo orientamento, considerandolo più aderente alla lettera e alla ratio dell’art. 73, 5° comma. Un elemento fondante della decisione è la considerazione della funzione della fattispecie di lieve entità, che è quella di mitigare la durezza repressiva delle fattispecie ordinarie (considerato in diritto 5). Altro elemento è quello della valutazione globale del fatto commesso, e non del solo dato ponderale (considerato in diritto 6).
Sulla prima parte del quesito le Sezioni Unite enunciano quindi il principio per cui la diversità di sostanze stupefacenti oggetto della condotta non è di per sé ostativa alla configurabilità del reato di cui all’art. 73, comma 5, dovendosi piuttosto procedere a una valutazione complessiva degli elementi della fattispecie concreta in relazione a tutti i parametri previsti nella disposizione, per determinare la lieve entità del fatto.
Le Sezioni Unite ripercorrono la giurisprudenza relativa al concorso di reati in tema di sostanze stupefacenti eterogenee. Poiché il Testo Unico si basa sulla nozione legale di stupefacente, cioè una droga è illegale se è inserita nelle tabelle, la catalogazione assume un ruolo definitorio della fattispecie legale. E nell’ipotesi in cui le sostanze siano catalogate in tabelle differenti, si ha una fattispecie legale differente. Invece, quando le sostanze, pur essendo naturalisticamente differenti, appartengono alla stessa tabella, o al medesimo gruppo omogeneo di tabelle, integrano un unico fatto reato.
La configurazione di fattispecie legali differenti ha aperto la strada alla configurazione del concorso di reati nel caso di detenzione di sostanze appartenenti a tabelle diverse. Ciò è accaduto durante la vigenza del Testo Unico dal 1990 al 2006. Durante il vigore della Legge Fini-Giovanardi non vi era concorso di reati, ma un unico fatto reato anche in caso di detenzione di sostanze diverse, stante l’inclusione di tutte le sostanze in un’unica tabella. Mentre con la revivescenza della precedente disciplina anche la giurisprudenza di legittimità ha recuperato il precedente orientamento, affermando la configurabilità del concorso di reati nel caso di violazioni legate a sostanze incluse in differenti tabelle.
Le Sezioni Unite si mantengono fedeli a tale impostazione, specificando che “nel caso in cui la condotta si riveli unica, il concorso di reati deve essere qualificato come formale, trovando conseguentemente la sua disciplina nella previsione di cui all’art. 81, primo comma, cod. pen.” (considerato 11), ovvero l’applicazione della pena prevista per la violazione più grave aumentata fino al triplo.
Ritengono poi possibile in astratto, ma difficilmente integrabile in concreto a seguito di una valutazione globale del fatto, il concorso tra comma 5 e uno dei commi 1 e 4. E concludono ribadendo (considerato 14) la configurazione unitaria della fattispecie del 5° comma, anche nel caso in cui per il complesso degli elementi del fatto si potrebbe ipotizzare la concorrenza di due reati di lieve entità relativi a sostanze inserite in tabelle differenti. Le Sezioni Unite concludono sottolineando che l’ultima modifica della sanzione inserita nel 5° comma, rivela “l’intenzione del legislatore di considerare comunque il fatto, se di lieve entità, in maniera unitaria, anche quando ha ad oggetto sostanze eterogenee” (considerato 14).
Il funzionamento concreto della sanzione per i fatti di lieve entità
Ma qual è stato e qual è il funzionamento concreto del comma 5° dell’art. 73? Qual è lo scarto che esiste tra la fattispecie ideale e quella che emerge dall’applicazione effettiva della norma?
Lo scopo della norma è quello di penalizzare in modo più lieve i fatti considerati di minore intensità criminale, innanzitutto attraverso l’applicazione di una pena più bassa, prevedendo un intervallo di scelta per il giudice tra sanzione minima e massima chiaramente inferiore rispetto alle fattispecie non lievi. Ma non solo, attraverso una pena più bassa, si tende anche a ridurre al minimo l’ingresso in carcere, in fase cautelare, processuale ed esecutiva.
In fase cautelare, non è obbligatorio procedere all’arresto in flagranza per la fattispecie di lieve entità (art. 380, co. 2, lett h) c.p.p.), anche se è possibile l’arresto facoltativo nei casi in cui si riscontrino gli elementi della gravità del fatto o della pericolosità del soggetto, desunta dalla sua personalità o dalle circostanze del fatto (art. 381 c.p.p.), ma la sussistenza di tali elementi dovrà essere giustificata in fase di convalida davanti al giudice dalla polizia giudiziaria che ha proceduto all’arresto. Inoltre, non è possibile disporre la custodia cautelare in carcere per chi sia imputato di un delitto ex art. 73, 5°, perché la custodia in carcere può essere applicata solo per i delitti puniti con pena non inferiore nel massimo a cinque anni (art. 280, 2° co. c.p.p.).
In fase processuale è possibile applicare la messa alla prova (art. 464‐bis c.c.p.), e sostituire il procedimento penale con un periodo di lavoro di pubblica utilità, poiché il limite di pena edittale massimo per l’accesso a questa misura è di quattro anni, e dunque il reato previsto dal 5° comma vi rientra. Oppure, come sanzione sostitutiva della pena, può essere applicato il lavoro di pubblica utilità previsto dal co. 5 bis del medesimo art. 73, nel caso si tratta di persona tossicodipendente o assuntore di sostanze stupefacenti.
In fase esecutiva è possibile non entrare in carcere e richiedere subito una misura alternativa alla detenzione, se la pena comminata è inferiore a tre, quattro o sei anni a seconda della misura richiesta (art. 656 c.p.p.), oppure uscire in misura alternativa dopo un periodo di detenzione con la detenzione domiciliare, l’affidamento in prova ordinario o l’affidamento terapeutico.
Fin qui, quanto previsto dalle norme nei codici e nelle leggi.
Alcune ricerche svolte negli ultimi dieci anni hanno cercato di mostrare il funzionamento concreto di queste norme. Ne sono emerse le dinamiche reali nell’applicazione delle disposizioni sui fatti di lieve entità, che portano a risultati divergenti, a volte opposti, rispetto a quelli che la legge sembra volere. L’indice più evidente di questa discrasia è la presenza in carcere di imputati e condannati per art. 73, 5°. Le cause sembrano essere in buona riconducibili a condizioni strutturali: viene riprodotta e intensificata la diseguaglianza sociale quando per esempio la gran parte dei detenuti per art. 73 non può accedere agli arresti domiciliari, se imputato, o alle misure alternative, se condannato, per la mancanza di un domicilio presso il quale concedere la misura. Ma anche una cultura diffusa tra le forze dell’ordine e le Procure, volta a ritenere in generale preferibile l’arresto e la custodia cautelare, piuttosto che denunce a piede libero e arresti domiciliari sembrerebbe essere presente nell’interpretare i parametri di legge.
In questo senso è rilevante un risultato evidenziato da tutte le ricerche condotte: la casistica mostra come le forze dell’ordine procedano all’arresto obbligatorio dei soggetti colti in flagranza, nell’atto di commettere una cessione di sostanze stupefacenti o psicotrope, o nel possesso di elementi connessi a tale delitto, anche quando i quantitativi delle sostanze suddette siano modesti; agli arrestati viene contestato la violazione di cui all’art. 73, co. 1 o 4, perché a questa è collegato l’arresto obbligatorio, del quale la polizia giudiziaria non deve giustificare l’applicazione al giudice per le indagini preliminari, come invece è necessario fare in caso di arresto facoltativo, in relazione alla gravità del fatto o alla pericolosità dell’autore. Una volta sottoposto ad arresto per le fattispecie più gravi, e convalidato l’arresto da parte del giudice per le indagini preliminari, sarà facoltà del giudice stesso anche applicare la custodia cautelare in carcere, che, con un’imputazione ex art. 73, 1° e/o 4° comma, è decisamente possibile.
Il risultato a cui porta l’utilizzo di queste prassi è “un ingresso massiccio nel circuito penitenziario di soggetti che si rendono responsabili di delitti di scarsa pericolosità sociale”, contrariamente a quanto le norme in materia di lieve entità vorrebbero ottenere.
L’estensione dello spazio sanzionatorio
Dall’ultima ricerca condotta è emerso un altro risultato importante, qui ripreso nell’intervento di Massimo Urzi. Si riportano le serie storiche delle condanne comminate dal Tribunale di Firenze per art. 73, suddivise nelle fattispecie previste dai vari commi. I dati nella serie storica 2013-2017 mostrano un uso sempre più intenso dell’art. 73, co. 5° come parametro di accertamento del reato: dalle 145 condanne del 2013 si sale, con un aumento progressivo e costante negli anni, alle 463 del 2017. Accanto a questo dato resta però sostanzialmente costante quello delle condanne per i delitti previsti dagli altri commi dell’art. 73, tutti fatti di non lieve entità: si passa dalle 424 condanne del 2013, attraverso oscillazioni poco importanti, alle 480 condanne del 2017.
La fattispecie di lieve entità, soprattutto nella sua configurazione come ipotesi delittuosa e sé stante invece che come attenuante successiva al 2014, sembra aver portato a un aumento della quantità dei comportamenti penalizzati: alle condanne per reati non di lieve entità che sono rimaste sostanzialmente costanti (aumentate di poco) si sono sommate le condanne per fatti di lieve entità, che sono più che triplicate. L’auspicio era piuttosto che la fattispecie di lieve entità, soprattutto declinata in forma di fattispecie autonoma, servisse a ridurre l’impatto delle più importanti sanzioni comminate per la fattispecie non lieve. Dal dato numerico si può invece ipotizzare che le condanne per fatti di lieve entità non siano andate a qualificare in modo meno grave fatti che prima erano qualificati come non lievi, ma piuttosto che abbiano qualificato come fatti di lieve entità comportamenti che precedentemente restavano fuori dell’area penale, con l’effetto di un’estensione complessiva dell’area sottoposta a controllo penale.
Queste conclusioni costituiscono un dato parziale e ipotetico, che come tale va preso e non può essere generalizzato, sollevando piuttosto l’esigenza di un approfondimento della ricerca. Sarebbe utile estendere l’indagine sia spazialmente, magari a livello nazionale, o al limite a livello di alcune Regioni più significative, e temporalmente, per raccogliere i dati relativi agli anni più recenti. Nonché, attraverso l’esame dei fascicoli, verificare se l’ipotesi ha un suo riscontro effettivo.
Tuttavia, questi risultati ci danno, credo, due indicazioni importanti. La prima è che il cambiamento della qualificazione del comma 5° da attenuante a fattispecie autonoma non è stato sufficiente ad ottenere l’effetto desiderato, perché non ha influito sulla cultura degli attori che danno vita alle prassi applicative. In questo senso sarebbe necessario che gli operatori della giustizia ricevessero dai loro punti di riferimento istituzionali il chiaro messaggio che il loro modo di applicare la Legge sulle droghe è molto importante perché essa funzioni secondo lo scopo per cui il legislatore l’ha introdotta e secondo i principi della Costituzione, primo tra tutti l’art. 27. In modo da far sì che tale Legge costituisca sempre meno il canale di ingresso in carcere di numerosi rappresentanti di quella che Sandro Margara definiva la “detenzione sociale”, la miseria materiale e culturale, e sempre più invece possa funzionare come un gancio attraverso il quale acchiappare qualcuno e portarlo sulla strada del reinserimento; non ultimo allo scopo di rendere le carceri meno affollate e più vivibili. Si potrebbe addirittura pensare di abbandonare la war on drugs e l’approccio giustizialista.
La seconda indicazione è quella che spinge a riproporre una modifica legislativa dell’art. 73, 5° comma, auspicando che un maggior rigore testuale sia d’aiuto nell’applicazione della legge.
La proposta di modifica del 73, 5°comma
La proposta di legge di modifica del Testo Unico sulle droghe è stata articolata nel X Libro Bianco e viene accuratamente spiegata nel contributo di Sarah Grieco a questo Libro Bianco. È una proposta di riforma organica, con cui si interviene sia sulle fattispecie non lievi che su quella di lieve entità, tutte previste dall’art. 73, rimodulandole in modo più chiaro e riducendone le pene. S’introduce inoltre la coltivazione legale di marijuana per uso personale, da poter svolgere anche in forma associata.
In particolare, per quanto riguarda la lieve entità si prevede di spostare la fattispecie contenuta nel 5° comma dell’art. 73 in un nuovo articolo 73-bis, in modo che la collocazione separata, anche dal punto di vista sistemico aiuti a percepirla come fattispecie autonoma. In questo senso sarà più difficile procedere a classificazioni generiche di art. 73, nel momento in cui si procede all’arresto o si formula l’imputazione. Il testo viene modificato nel riferimento inziale in cui, invece che riferirsi ai “fatti previsti dal presente articolo”, si riferirà a “uno dei fatti previsti dai commi 1, 2, 3 e 4 dell’articolo 73”.
Nella parte sanzionatoria si prevede di differenziare le pene a seconda dell’appartenenza tabellare delle sostanze rinvenute, per mettere in evidenza la diversa gravità del comportamento, che si fonda sul diverso grado di pericolosità per la salute delle sostanze vietate. Si ritiene necessario che la legge metta in evidenza il minor disvalore riconosciuto alla condotta volta solo allo spaccio di “droghe leggere”, in virtù del danno minore o inesistente per la salute che queste provocano. A questo si aggiunge il dato di fatto che spesso la vendita di sole droghe leggere è una pratica svolta anche dagli stessi consumatori, che per potersi approvvigionare in modo costante comprano quantità più elevate rispetto a quelle consumate quotidianamente, magari facendo acquisti di gruppo e poi dividendo le quote. Questo secondo gruppo di autori di reato è tale solo a causa delle scelte repressive in materia di droghe, ovvero non entrerebbe affatto nel sistema penale se l’acquisto di “droghe leggere” fosse permesso legalmente, ma andrebbe dal tabaccaio come fanno i consumatori di tabacco, oppure potrebbe coltivare marijuana liberamente.
Il testo proposto prevede di introdurre le sanzioni delle pene “della reclusione da tre mesi a due anni e della multa fino a euro 10.000 nei casi di cui ai citati commi 1, 2 e 3 e con le pene della reclusione da un mese a un anno e della multa fino a euro 2.000 nel caso di cui al citato comma 4”.
La proposta di legge Magi (proposta n. 2307 A.C.), attualmente all’esame della Commissione Giustizia ha ripreso letteralmente il testo proposto riguardo alla fattispecie di lieve entità, introducendo una fattispecie autonoma con collocazione in un articolo distinto (art. 73-bis, co. 1) e differenziando il regime sanzionatorio a seconda della sostanza, con pene con intervalli differenti per “droghe leggere” e “droghe pesanti”. La proposta Magi non ha riproposto l’intero articolato di modifica della Legge sulle droghe ma soltanto quello riguardante la fattispecie di lieve entità, perché è stata presentata allo scopo di essere abbinata e discussa insieme alla proposta presentata dalla Lega (proposta Molinari, n. 2160 A.C.). Quest’ultima ha lo scopo di criminalizzare maggiormente la fattispecie di lieve entità (aumento delle pene, con introduzione del massimo a sei anni), di permettere, sempre, e senza necessità di giustificazione, l’arresto in flagranza (eliminazione dell’eccezione del 5° comma dalla specifica fattispecie di arresto in flagranza prevista dall’art. 380, comma 2, lett. h), e di ammettere in via generale la misura cautelare della custodia in carcere per fatti di lieve entità (tramite l’innalzamento della pena edittale massima a sei anni e la conseguente fuoriuscita dall’area dei reati puniti con la pena non inferiore nel massimo a cinque anni per i quali è ammessa la custodia in carcere dall’art. 280 c.p.p.).
Lo scopo dunque della proposta Magi è quello di porsi in contrasto alla proposta Molinari. Se dovessero essere approvate le modifiche proposte da quest’ultima, tutte le problematiche fin qui denunciate nelle prassi applicative della Legge sulle droghe diverrebbero più gravi e il risultato sarebbe quello di un notevole incremento degli ingressi e delle presenze in carcere, con conseguenze disastrose sul sovraffollamento.
Inoltre, la proposta Molinari prevede anche si abrogare i commi 5-bis e 5-ter dell’art. 73. Il comma 5-bis prevede che, nel caso il fatto di lieve entità sia commesso da chi è tossicodipendente o assuntore, il giudice possa sostituire la pena con il lavoro di pubblica utilità. E il comma 5-ter prevede che lo stesso trattamento possa essere applicato al tossicodipendente/assuntore anche nel caso in cui abbia commesso un reato diverso e gli sia stata comminata una pena non superiore ad un anno di detenzione. Queste norme hanno lo scopo di offrire concrete opportunità di reinserimento, e piuttosto che abrogarle si dovrebbe lavorare per far sì che ricevessero un’applicazione più diffusa e sistematica di quella attuale, cercando di individuare quali sono gli ostacoli. Infatti, dai dati degli Uffici esecuzione penale esterna emerge che sono una minima parte, tra i provvedimenti di lavori di pubblica utilità, quelli motivati in base agli artt. 5-bis e 5-ter dell’art. 73: a livello nazionale erano in corso alla fine del 2018 in tutto 7429 lavori di pubblica utilità, dei quali solo 470 trovavano la loro giustificazione nel comma 5-bis, o nel 5-ter). L’abrogazione di questi articoli avrebbe inoltre l’effetto non secondario di incrementare ulteriormente gli ingressi e le presenze in carcere.
Infine, è importante richiamare l’attenzione su un punto che dovrebbe essere discusso, nei suoi pro e contro, nel momento in cui si opererà la scelta su come riconfigurare la fattispecie di lieve entità. Si è già detto del valore che ha la differenziazione delle pene a seconda della tipologia delle sostanze. Un’altra considerazione è però importante. Con l’introduzione della differenziazione sanzionatoria verrebbe probabilmente a cadere l’interpretazione come fattispecie unitaria del fatto di lieve entità. La lettura unitaria della fattispecie data dalle Sezioni Unite della Cassazione nel 2018 offre la possibilità di non procedere all’applicazione del concorso formale di reati, e questo nel caso non raro dei piccoli spacciatori che hanno la detenzione a fini di spaccio di più tipologie di sostanze, spesso in minime quantità, può essere utile per non moltiplicare e aumentare le pene. La previsione unitaria della fattispecie permette di poter condannare questi fatti come un unico reato (evitando il rischio che differenziando le pene si abbiano due fattispecie in concorso formale tra di loro e quindi con aumento di pena), portando il vantaggio di ridurre l’entità complessiva della pena e di conseguenza il numero degli ingressi e delle presenze in carcere. Sarebbe importante poter mantenere questo effetto deflattivo, e conciliarlo con la distinzione sanzionatoria tra “droghe leggere” e “droghe pesanti”. Forse si potrebbe pensare a una fattispecie unitaria con annessa riduzione di pena nel caso di fatti relativi esclusivamente alle “droghe leggere”, ma questo sta al dibattito e agli eventuali emendamenti.