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In un saggio pubblicato alla fine degli anni Ottanta, inedito in Italia, Zygmunt Bauman mostrava la circolarità del rapporto tra il carcere e lo spazio pubblico. Se all’inizio gli istituti penitenziari erano stati concepiti come corpi separati dalla società, dotati di una struttura, di un’organizzazione, e di una configurazione propria, a lungo termine avevano finito per influenzare la pianificazione dello spazio urbano. La regolarità a scacchiera dei quartieri moderni, l’illuminazione notturna quasi ossessiva, la riduzione degli spazi pubblici a luoghi recintati e circospetti, riproduce infatti la monotonia e prevedibilità degli spostamenti, funzionali ad un progetto disciplinare attraverso il quale si dispiega il controllo capitalistico dei corpi e, parafrasando Foucault, delle anime.
La società contemporanea, che fa del controllo sociale la sua cifra, trasformando i luoghi di produzione, scambio e circolazione in spazi della paura, espelle il carcere dal suo corpo vivo, situandolo in luoghi sempre più inaccessibili al normale cittadino e sempre più fortificati. In questo contesto, come si pone il rapporto tra pena e società? Come si può, all’interno di spazi sempre più disumanizzati, declinare parole quali «rieducazione» o «reinserimento»? A queste domande tenta di rispondere il lavoro collettaneo Il corpo e lo spazio della pena (Ediesse, pp. 260, euro 13), curato da Stefano Anastasia, Franco Corleone e Luca Zevi. Contributi forniti da studiosi di diverso background scientifico (sociologi, urbanisti, giuristi, esperti di tematiche penitenziarie) guidano il lettore in un percorso che va dalla disamina dei diversi modelli di carcere al rapporto tra la pena e la società. Emerge così il fatto che, malgrado la rimozione a cui viene quotidianamente sottoposta, la questione penitenziaria si ripresenta continuamente come la soglia critica della società contemporanea, che ne contiene tutte le contraddizioni più acute.
In uno dei contributi, Mauro Palma delinea due differenti tipologie di istituzioni penitenziarie. La prima è quella contenitiva, destinata ad alloggiare il detenuto e a contenerlo fino alla sua estinzione del debito con la società. La seconda tipologia riguarda quelle carceri che al loro interno posseggono quegli spazi preposti ad ospitare le attività educative, sanitarie e di socializzazione. Tuttavia, e questo rappresenta un aspetto da sottolineare, anche all’interno di quest’ultima tipologia è possibile operare una differenziazione significativa. Se nei paesi nordici, negli ultimi anni, si sono costruiti della carceri responsabilizzanti, vale a dire strutture che differenziano gli spazi, consentono ai detenuti libertà di movimento e di scelta rispetto alle attività rieducative che intendono seguire, l’Italia continua a seguire il modello infantilizzante. Questo consiste nel concentrare tutti gli spazi nei singoli padiglioni, obbligando così i carcerati ad essere sottoposti al continuo controllo delle autorità carcerarie, alle quali debbono chiedere il permesso per spostarsi, e dalle quali continuano a dipendere per ogni minima esigenza vitale.
Il problema delle carceri, tuttavia, non è riconducibile soltanto alla tipologia di architettura, bensì alla volontà politica e all’orientamento sociale che ne sottendono l’edificazione e le finalità amministratrici. L’intervento di Stefano Anastasia puntualizza come, al di là del debito pubblico che affligge il nostro paese, la costruzione di nuove carceri, anche se seguisse il modello scandinavo, non risolverebbe il problema del sovraffollamento, le cui origini vanno piuttosto rintracciate nelle leggi criminogene contro i migranti e i consumatori di sostanze stupefacenti, varate sotto la spinta securitaria dei primi anni novanta. Questo tema rappresenta il vero nodo gordiano da sciogliere, alla luce del fatto che, sottolinea Patrizio Gonnella, la costruzione di nuove carceri, dettata dai soliti criteri emergenziali, nel corso degli anni non ha fatto altro che creare un circolo vizioso tra istituti di pena e sovraffollamento. A Milano, Bollate ed Opera furono costruite per decongestionare San Vittore. Vent’anni dopo, anche le nuove prigioni milanesi sono sovraffollate. Inoltre, l’edilizia penitenziaria si connota con un vero e proprio business, da cui possono scaturire sia episodi articolati di corruzione, come le carceri d’oro degli anni Ottanta, sia tentazioni privatizzatrici, come successo nel Regno Unito e negli Usa, la cui conseguenza è quella di una proliferazione di subappalti gestiti da compagnie che antepongono il profitto all’implementazione dei diritti dei detenuti. Al tempo di Monti, questa tentazione, sarebbe il caso di rifuggirla, e di impegnarsi piuttosto a cancellare le leggi criminogene, a varare misure alternative alla detenzione e ad impegnarsi per un provvedimento di amnistia. In altre parole, di rendere il carcere meno necessario possibile.