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Timothy Garon aveva 56 anni e faceva il musicista a Seattle. Aveva bisogno di un trapianto di fegato per guarire dalla cirrosi, causata dal virus dell’epatite C con cui aveva convissuto dall’adolescenza. Per alleviare i dolori della malattia, contrastare la nausea e aumentare un po’ l’appetito, un medico gli aveva suggerito l’uso della marijuana a scopo terapeutico, certamente non sapendo che quella prescrizione avrebbe segnato le sorti del suo paziente. Una volta superati tutti gli esami di routine per accedere alla lista d’attesa per il trapianto, Timothy Garon si è infatti visto negare l’iscrizione perché considerato tossicodipendente e, senza trapianto e senza più speranza, è morto nel giro di qualche settimana, lo scorso aprile.

La triste vicenda ha dell’inverosimile, ma è tutta drammaticamente vera al punto che negli Usa si è aperto un ampio dibattito sull’uso delle droghe leggere, anche sotto forma di farmaci per il dolore autorizzati e prescritti dai medici, in relazione alle terapie mediche, in particolare ai trapianti.

Una parte della comunità scientifica sostiene che chiunque faccia uso di sostanze illecite, inclusa la marijuana a scopo terapeutico, non possa accedere al trapianto: gli organi sono pochi e vanno destinati a chi dà maggiori garanzie di saperli conservare bene. Altri sostengono invece, supportati da un’ampia letteratura scientifica, che l’uso di droghe leggere non ha alcuna influenza sul trapianto e, quindi, che non spetti al medico prendere delle decisioni in base agli stili di vita di un paziente se non ci sono dirette conseguenze sulla terapia e sulla prognosi. In mezzo, c’è chi opta per il compromesso e chiede che chi ha assunto marijuana dimostri, prima di entrare in una lista per trapianto, di non avere fatto uso di droghe di alcun tipo, compreso l’alcol, negli ultimi sei mesi. Una regola univoca non esiste ancora e, negli Stati Uniti, ogni ospedale è libero di adottare la condotta che ritiene più opportuna, ma sono sempre più numerosi coloro che ritengono che non si possano assegnare gli organi a persone che hanno dimostrato una propensione all’uso di droghe illegali o, più in generale, verso stili di vita dannosi per la salute.

Questo ragionamento si potrebbe forse condividere nel caso dell’abuso di alcol: se una persona ha contratto la cirrosi epatica a causa del suo alcolismo e non ha alcuna intenzione di smettere di bere, probabilmente non dovrebbe essere trapiantata di fegato, dato che è risaputo che l’alcol comporta effetti negativi che possono compromettere il funzionamento dell’organo. Lo stesso ragionamento vale per un fumatore che ha bisogno di un trapianto di polmone ma non vuole assolutamente smettere di fumare: a queste condizioni non si potrà fare nulla per aiutarlo e un organo trapiantato a un paziente che non adotta uno stile di vita corretto, alla fine sarebbe in un certo senso sprecato.

Ma per la marijuana la logica non è la stessa. L’assunzione di questa sostanza implica certamente un comportamento illecito rispetto alla legge, ma non rispetto alla medicina. Infatti non esiste alcuna prova scientifica che un organo trapiantato sarà danneggiato se una persona ha fumato o assunto marijuana in altra forma. Inoltre, non c’è motivo di pensare che una persona ammalata, che ha assunto droghe leggere a scopo terapeutico, continuerà a farlo una volta superata la malattia, e quindi risolto il motivo che la spingeva a fare uso di quelle sostanze.

Anni fa, un’infermiera del centro trapianti americano dove lavoravo, trovò della marijuana nel comodino di un paziente e lo denunciò. Era un veterano della guerra del Vietnam e ogni tanto si fumava uno spinello per calmarsi: non era solo ammalato di cirrosi, aveva gravi problemi psicologici, non sopportava gli aghi, faceva fatica ad addormentarsi e, probabilmente, il solo fatto di sapere che nel cassetto del comodino aveva la sua erba, lo aiutava a mantenere il controllo e a dargli un po’ di sicurezza. Fu una dura lotta contro l’amministrazione che non riusciva ad accettare l’idea che venissero trasgredite le regole all’interno delle mura dell’ospedale, anche se questa trasgressione rappresentava un piccolo dettaglio e di certo il male minore rispetto alle esigenze di quel particolare paziente in pericolo di vita. Con molta fatica riuscimmo a resistere alle pressioni della direzione dell’ospedale, a non farlo togliere dalla lista d’attesa e alla fine a trapiantarlo e a rimandarlo a casa in buona salute. Il giorno in cui lo dimettemmo dall’ospedale chiese di incontrare me e l’infermiera che lo aveva denunciato e, nel ringraziarci per quello che avevamo fatto per lui, ci affidò in gran segreto la sua bustina di marijuana dalla quale non aveva mai voluto separarsi. Era come un talismano, ma non ne aveva più bisogno, nemmeno psicologicamente, perché il suo problema non era la tossicodipendenza, ma la cirrosi. Fu un momento commovente per tutti e tre per la spontaneità di un gesto che voleva suggellare l’addio all’ospedale, alla malattia e anche alla droga.

La vera domanda che dobbiamo porci dunque è un’altra: può il medico prendere le proprie decisioni terapeutiche sulla base di un giudizio morale sulle abitudini di vita di un paziente? Per i trapianti questo è un vero dilemma dato che nell’assegnare un organo si contribuisce a salvare la vita di un uomo, ma un altro potrebbe morire perché per lui l’organo non è arrivato in tempo. Chi può dire quale delle due persone merita di più questo straordinario dono? Oggi i criteri sono rigidi e si tiene conto esclusivamente di parametri clinici, ma fino a qualche anno fa una certa discrezionalità veniva lasciata ai responsabili dei centri trapianti che si trovavano a volte di fronte alla scelta se trapiantare un giovane di vent’anni con tutta la vita davanti o una donna di 50 anni con tre figli da crescere.

Nel 1962, a Seattle entrò in funzione la prima dialisi. All’epoca erano circa 10 mila i pazienti americani che ogni anno morivano di insufficienza renale e non esisteva ancora il trapianto. Chi aveva diritto ad accedere alla nuova terapia salvavita? Per rispondere alla domanda venne creato un comitato composto da persone di varia estrazione sociale e culturale, un banchiere, una casalinga, un sindacalista, un avvocato, e altri ancora, con il compito ingrato di decidere chi salvare, ammettendolo alla dialisi, e chi escludere. Il comitato valutava la professione del paziente, la sua fede, il grado di educazione, la situazione familiare, in sintesi il principio era di sottrarre alla morte colui che aveva maggiormente contribuito al bene della società o la cui scomparsa avrebbe creato gravi problemi. The God Committee, come lo battezzò il settimanale ‘Life’, esercitò per dieci anni il potere di vita e di morte sui pazienti fino a quando il Congresso, su pressioni sempre più insistenti, non approvò massicci stanziamenti per rendere disponibile la dialisi a tutti i cittadini che ne avevano bisogno.

Un altro caso molto complesso scoppiò una decina di anni fa. Era il 1997, e James Earl Ray, il killer che aveva ucciso Martin Luther King ed era stato condannato a 99 anni di carcere, chiese di essere sottoposto a una serie di esami diagnostici per accedere alla lista d’attesa per il trapianto di fegato. Il giudice in un primo tempo autorizzò il trasferimento del prigioniero all’ospedale di Nashville per i primi accertamenti. Successivamente venne chiesto il parere del centro trapianti di Pittsburgh, all’epoca il più importante di tutti gli Stati Uniti. Medici e chirurghi si trovarono così a porsi il quesito se fosse giusto offrire una terapia salvavita a una persona che aveva tolto la vita a un altro uomo e che con un colpo di fucile aveva annientato il simbolo dell’America democratica e non violenta, di chi lottava per la parità dei diritti, contro ogni discriminazione.

Il tribunale prese tempo e alla fine non negò il trapianto, ma sancì che Ray non poteva viaggiare al di fuori dello Stato dove era stato condannato. I medici, da parte loro, non fecero nulla per sottolineare l’urgenza di un trasferimento e così, nel giro di un anno, il paziente morì. Nessuno sollevò obiezioni su come era stata condotta la vicenda ma, ripensandoci dopo tanti anni, una riflessione va fatta. Il tribunale aveva condannato James Earl Ray al carcere a vita; lasciando trascorrere il tempo e rinunciando di fatto a curarlo, altri lo hanno condannato a morte. Fu una vicenda influenzata dall’emotività e dall’orrore suscitato dall’omicidio di Martin Luther King, ed era impossibile che qualcuno si battesse per la difesa della salute dell’assassino. Ma, in generale, può spettare ai medici tale giudizio? Il quesito e la situazione sono estremi e chiariscono bene come a volte il ruolo del medico si possa trasformare in quello di un giudice della vita altrui. Un ruolo che in realtà non gli spetta e un potere che a mio modo di vedere non dovrebbe mai esercitare.

Ignazio Marino, chirurgo, è senatore del Partito Democratico