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WASHINGTON – Due cavalieri bianchi armati di milioni si lanciano contro il cavaliere nero di catrame che avvelena il mondo, la sigaretta. Martellati dai medici e trafitti dalle statistiche, cacciati dagli uffici, dagli stadi (presidenti dei club esclusi), da ristoranti, parchi e persino dai bracci della morte dove ormai è vietato fumare per non danneggiare la salute dei morituri, i fumatori dovranno misurarsi anche con i soldi di due implacabili benefattori.

Bill Gates, il pensionato più ricco del mondo, e Michael Bloomberg, il sindaco di New York. Cinquecento milioni di dollari – 125 offerti in due tranche dall’ex presidente di Microsoft oggi libero di escogitare modi per spendere i propri 50 miliardi, e 250 da Bloomberg, ex democratico, ex fumatore, ex bon vivant, ex repubblicano e oggi indipendente, ravveduto, risanato, con 20 miliardi di dollari nel salvadanaio e qualche vaga ambizione presidenziale – saranno distribuiti dalle loro fondazioni ai governi e ai Paesi d’Asia, Africa e America Latina, in quelle nazioni in via di sviluppo, neo-potenze o miserande, nelle quali le sorelle multinazionali della cicca stanno esportando il loro veleno, ampiamente compensando le perdite di fumatori nell’America del Nord e in Europa Occidentale.

Se la cifra sembra importante, pur se dilazionata in rate quinquennali, e l’intento di “bloccare l’epidemia del tabacco nel mondo”, come ha detto Bloomberg con il fervore messianico del peccatore pentito, ambizioso, la realtà è che quei 500 milioni di dollari – circa 300 milioni di euro – sono una cicca gettata nell’oceano di fumo che negli ultimi decenni, a dispetto delle campagne e dei moniti, ha continuato a crescere. Per ogni fumatore che riesce ad abbandonare il vizio negli Stati Uniti o in Italia, tre nuovi consumatori, e soprattutto consumatrici, si accendono una sigaretta in Cina, in India, persino in quell’Iran apparentemente proibizionista nel nome dei precetti igienici del Corano che è divenuto uno dei principali importatori di “americane”. Al punto di avere fatto pronunciare al candidato repubblicano alla Casa Bianca John McCain una di quelle lugubri boutade per le quali sta diventando famoso: “Bene, incoraggiamoli, così ammazzeremo più iraniani”.

L’impresa dei due miliardari irresistibili di “esportare l’aria pulita”, contro quella che il New York Times definì nel 1925 “il simbolo della nostra età delle macchine”, la sigaretta, si profila dunque ancora più difficile del claudicante progetto bushista di esportare la democrazia dall’Himalaya al Libano. I governi che dovrebbero ottenere parte di quel mezzo miliardo per lanciare campagne anti-fumo e spegnere le sigarette, sono spesso i grandi beneficiari delle imposte sul tabacco, come, paradossalmente, lo sono anche quegli stati americani, come la California, il New Jersey, il Maryland che finanziano con aumenti delle tasse sui pacchetti di sigarette spese sanitarie, sperando che i tabagisti non rinuncino alla loro dipendenza, per non dover aumentare poi tasse sui reddito o tasse sulla case, l’Ici americano che finanzia tutti i bilanci di città e contee.

Nella Cina che ha golosamente scoperto tutti i nostri peggiori difetti, dallo smog al fast food, il consumo di sigarette è arrivato, secondo l’ultima ricerca dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, a cinquemila sigarette all’anno per abitante – 15 al giorno – e una sigaretta su tre accese nel mondo, è accesa in Cina dove ancora nel 1952, quando in Europa e America tutti sembravano fumare, il consumo era di una al giorno. L’India, l’altra neo superpotenza emergente, consuma meno, ma per ogni sigaretta si fumano sette “bidi”, sigarettine colorate e arrotolate in mini aziende domestiche quasi sempre dalle donne, che, dietro l’esotismo “hindu” del nome, fanno altrettanti danni delle geometriche sorelle impacchettate in America, se non peggiori. Il Giappone, che pure ha lanciato campagne non convintissime, resta il terzo fumatore al mondo per persona. Li seguono la Russia e l’Indonesia, la più popolosa nazione musulmana del pianeta. Anche negli Stati Uniti, dove ormai il fumo di tabacco è rimasto l’unico vizio socialmente inaccettabile e gli impiegati tabaccodipendenti affrontano le intemperie e le calure per tirare qualche boccata sul marciapiedi (purché a una distanza minima di 10 metri dal palazzo) un americano su quattro ancora “lights up”, accende.
I 500 milioni stanziati dai due salvatori dell’umanità, che progettano come il fondatore di Microsoft altre crociate benefiche per estirpare la malaria, l’Aids, la dissenteria e altri piccoli problemi di salute globali, dovranno dunque misurasi contro i 17 miliardi di sigarette fumate ogni giorno nel mondo, e il miliardo di essere umani, ormai in maggioranza femmine in Occidente, che non riescono a vincere il loro vizio. Con quei soldi, che sono briciole per nazioni come la Russia, la Cina o l’India, ma che potrebbero far gola almeno ai governi delle più povere nazioni africane dove la nuvola tossica del fumo si sta allargando ai bambini, si vorrebbe dissuadere la pubblicità di prodotti del tabacco, finanziarie campagne di educazione sanitaria, diffondere le cifre e le ricerche epidemiologiche sui danni del fumo.

Basterà confrontare questo mezzo miliardo di dollari con i 368,5 miliardi di dollari inflitti dai tribunali americani a Philip Morris e sorelle soltanto per i danni arrecati ai fumatori americani, o il miliardo di dollari che la Florida, uno stato dove ancora si fuma parecchi grazie alla forte presenza di sud e centro americani, incassa ogni anno dalle imposte sulle sigarette, per capire quanto impari sia la lotta lanciata da questi due generosi bonificatori dell’aria. Ma se Bill Gates riuscì a convincere il 90% degli utenti di computer nel mondo che i suoi sistemi operativi erano buoni e affidabili, potrebbe anche riuscire a persuadere un miliardo di fumatori cinesi a buttare la cicca.