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Sull’ergastolo ostativo in queste ore si va combattendo una battaglia contro il tempo e contro un fronte che si fa chiamare “antimafia” ma che in realtà difende un’impostazione di stato d’emergenza che contrasta con lo stato di diritto e con i valori fondanti della nostra democrazia.

La Corte Costituzionale più volte, e in precedenza la Corte Europea dei diritti dell’uomo, hanno sancito che non può esistere il “fine pena mai”.

Conseguentemente al legislatore italiano con ordinanza 97/2021 è stato affidato il compito di approvare entro maggio 2022 un nuovo testo che corregga la norma e possa ripristinare il dettato costituzionale dell’art. 27, affermando, nel diritto materiale, il fine rieducativo della pena.

Già prima dell’ordinanza della Corte mi ero fatta promotrice di una proposta di legge che andasse a incidere nel nostro ordinamento nella direzione indicata dalla Corte stessa (A.C.n.1951).

Ma il procedimento legislativo non è agevole.

Anzi, è ostacolato da un dibattito pubblico, politico e istituzionale, che si fonda sull’errata convinzione che l’ergastolo ostativo sia uno strumento per arginare le mafie.

Non lo è in linea di principio e non lo è nei fatti.

È urgente, pertanto, fare chiarezza su questo terreno: bonificare il dibattito da strumentalità e forzature interpretative utilizzate sia dal punto di vista giuridico che culturale.

Innanzitutto i fatti ci dicono che le maglie dell’ergastolo ostativo oggi strozzano le vite di una popolazione carceraria che in maggioranza non sono i mafiosi più pericolosi.

Su 54.530 detenuti, di cui 37.696 con condanna definitiva, 1784 sono condannati all’ergastolo. Di questi, 1267 sono ergastolani ostativi, ma solo 262 sono al 41 bis, e non tutti condannati per mafia (dati dicembre 2020).

In più, leggendo il rapporto 2020 del Garante nazionale dei detenuti, l’uscita per liberazione condizionale di detenuti ergastolani dal 2019 al 2021 è stata di 5 persone.

La narrazione sulla liberazione dei mafiosi pericolosi si infrange, dunque, sia sui numeri che sui fatti.

L’ergastolo ostativo è stato piuttosto una risposta autoritaria dello Stato in un frangente storico emergenziale, con l’affermazione della perpetuità della pena detentiva per chi non fosse disposto a collaborare.

A fondamento della previsione normativa dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario c’è infatti la condizione assoluta del condannato che non ha alternative alla collaborazione, sganciata da ogni valutazione sui singoli percorsi all’interno delle mura carcerarie, sulle singole attitudini al reinserimento sociale, sulle singole motivazioni che spingono o meno un detenuto alla collaborazione.

Ma siamo sicuri che chi collabora lo faccia perché è uscito dall’apparato criminale? O di contro chi non è in grado di collaborare sia ancora dentro l’organizzazione mafiosa?

Dunque nessuna “tana liberi tutti”.

Quello che serve è piuttosto approvare una legge che conceda la possibilità di accedere ad un beneficio, previa accurata istruttoria, soppesando caso per caso e affidando al magistrato di sorveglianza il potere di definire la pericolosità o la mancata collaborazione di ciascun detenuto, ripristinando finalmente lo spirito dell’articolo 27 della Costituzione, per come era stato correttamente scritto nel 2013 nel documento conclusivo della Commissione Giostra, in tema di ordinamento penitenziario.

È auspicabile che l’aula della Camera, nelle prossime settimane, archivi dunque sia il precedente 4 bis, sia il nuovo testo base che si muove nella direzione opposta alle indicazioni della Corte,  sapendo che comunque vada, come giustamente afferma Valerio Onida: “l’ergastolo ostativo nel senso in cui fino ad oggi l’abbiamo considerato, non ha più cittadinanza nel nostro ordinamento”.

Se noi legislatori non saremo consapevoli di questa nuova condizione, ce lo ripeterà certamente la Corte Costituzionale dopo il 22 maggio.