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La sentenza della Corte penale di Oslo rappresenta una lezione di civiltà, da molti punti di vista. Anders Breivik è stato condannato a 21 anni di carcere, il massimo della pena per il codice penale norvegese. Dopo l’orrenda strage del 22 luglio 2011, in cui furono sterminate 77 persone, tra cui 69 ragazzi che partecipavano a una scuola di partito, molti esponenti dei partiti di destra sentirono il dovere di affermare “oggi siamo tutti laburisti”. Sarebbe bello che in Italia potessimo dire “siamo tutti norvegesi”, ma per far ciò dovremmo attuare una riforma copernicana della giustizia e della politica: cominciando dall’abolizione dell’ergastolo, dalla pratica del giusto (e rapido) processo, dal ripudio della cultura dell’emergenza.

La battaglia contro l’ergastolo è invece dimenticata e sepolta. Nel 1998, il Senato votò il superamento della pena perpetua ma poi la proposta fu insabbiata. Anche gli esiti delle Commissioni Grosso e Pisapia per la riforma del Codice Penale sono rimasti nei cassetti. Le forze politiche che hanno fissato il 9 maggio come Giorno della Memoria per le vittime del terrorismo, in ricordo dell’assassinio di Aldo Moro, hanno dimenticato il suo insegnamento contro l’ergastolo, considerato peggiore della pena di morte.
Il processo contro Anders Breivik ha avuto tempi di una celerità impensabile per l’Italia, ma soprattutto ha visto la partecipazione popolare nel nome della tolleranza e del rifiuto della vendetta. Nils Christie, noto criminologo abolizionista, ricordando le centinaia di migliaia di persone che portarono un fiore alle vittime, ha scritto: “Rose, non vendetta. Un’eccellente forma di politica penale”. E il leader socialdemocratico Jens Stoltenberg subito dopo la strage usò queste parole:”Noi sceglieremo la via di più democrazia e più umanità”. Quale politico in Italia sarebbe oggi capace di pronunciare parole di esaltazione dello stato di diritto senza cedere all’orgia della retorica giustizialista? Colmare questo spread di civiltà non può essere compito dei tecnici. Occorrono un’anima e un pensiero che il deserto intellettuale di questi anni hanno disperso e che vanno ritrovati.

Il processo ha affrontato anche la delicata questione della responsabilità dell’imputato. L’accusa, sulla base di una perizia psichiatrica che dichiarava Breivik affetto da schizofrenia paranoide, propendeva per il ricovero in manicomio. La difesa e la maggioranza dell’opinione pubblica chiedevano invece il riconoscimento della sanità di mente e la condanna al carcere. Davvero un nodo intricato, apparentemente. Da una parte, la via rassicurante della pazzia individuale che consente di “sterilizzare” le ideologie razziste rivendicate da Breivnik; dall’altra, il timore di dare dignità politica a un assassino. C’è di più in campo. La pretesa dei lombrosiani contemporanei che, forti di alcuni filoni delle moderne neuroscienze, mettono in discussione addirittura il libero arbitrio, col risultato di avvalorare un ritorno alla psichiatria organicista e meccanicista.

In realtà, la partita non è tra pazzia e sanità di mente. Bisogna avere il coraggio di riconoscere a tutti, senza distinzioni, la responsabilità delle proprie azioni, quel tanto di umano che non può essere negato a nessuno. E’una lezione per noi, in vista della chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari: per rifuggire dal rischio di nuove istituzioni totali.